Ho sempre avuto un profondo rispetto per quelle band che plasmano il proprio suono senza compromessi, accettando le influenze da cui attingono, ma senza piegarsi alle logiche di mercato o a ciò che più converrebbe proporre a un pubblico dalla soglia di attenzione sempre più bassa. È raro, soprattutto in Italia, imbattersi in progetti che si muovono con questa libertà, senza farsi ingabbiare da mode passeggere o dalle solite sonorità che dominano la scena musicale del nostro paese. I romani Panta in questo senso rappresentano un bellissimo esempio di musicisti che non solo ci riescono, ma lo fanno con un’urgenza sincera, trasformando le loro influenze in qualcosa di vivo, che risuona senza bisogno di compromessi. Con il loro secondo album, Poeti, Vampiri & Veneri Punk, uscito a fine dicembre, i Panta danno ancora più forma e sostanza al proprio personale universo sonoro, tratteggiandone con precisione i contorni. Registrato a metà tra Roma e gli iconici Abbey Road Studios e Battery Studios di Londra, è un disco che vibra di indie-rock, post-punk e britpop, con radici ben piantate nella tradizione anglofona. Tra le sue tracce si avvertono gli echi della scena newyorkese degli anni Duemila – Interpol, Strokes, Editors, Bloc Party – e della scena britannica degli anni Novanta, tra Oasis, Blur e Stone Roses. Un’affinità non casuale, dato che molte delle canzoni sono state concepite dal frontman Giulio Carlo Pantalei tra Londra e Cambridge, in un continuo dialogo con i paesaggi sonori che da sempre lo ispirano. Ma non è solo una questione di riferimenti: i Panta fanno loro questa eredità e la intrecciano con un’anima cantautorale che emerge nei testi in italiano, meno oscuri rispetto al debutto Incubisogni e con una luce più consapevole e matura. La tracklist, costruita con intelligenza, alterna sapientemente due anime: da un lato, la sfrontatezza elettrica e irriverente dell’indie-rock; dall’altro, una vena più intima e malinconica, sospesa tra nostalgia britpop e riflessione esistenziale. E nel mezzo, un’energia che non si disperde mai, ma che si trasforma e si rinnova, traccia dopo traccia.
E in quanto a canzoni, Poeti, Vampiri & Veneri Punk non fa sconti a nessuno: “Finale di Stagione” non perde tempo e apre le danze con un riff di chitarra accattivante, dallo smaccato taglio indie-rock. Il testo gioca con la metafora di un ciclo narrativo che si ripete, sospeso tra attese e ripartenze (“Ci capiremo al prossimo episodio, come fosse un bel gioco“), ma con un sottotesto malinconico che riflette sull’illusione della continuità (“La storia non finirà mai“). Nel ritornello la verve si fa più diretta e pungente, incastonandosi con disinvoltura nell’impronta scanzonata alla Franz Ferdinand del brano. Il bridge in delay, poi, è uno dei momenti più riusciti, con quel fraseggio di chitarra tagliente che si muove con eleganza tra tensione e melodia, incarnando in pieno quel dinamismo nervoso che gli Interpol hanno reso un marchio di fabbrica e che Pantalei, da grande appassionato della band di New York, sa far suo con naturalezza. “Cristalli Liquidi” accelera il ritmo con un basso frenetico e una suggestiva chitarra in tremolo, tornando su territori cari agli Interpol, agli Editors di The Back Room, fino ai White Lies e ai The Killers di Hot Fuss. L’anima qui oscilla tra il post-punk revival e l’alternative rock più immediato: nel tessuto sonoro del brano è presente anche un bel sintetizzatore anni Ottanta, che aggiunge profondità al sound, accentuandone ulteriormente l’anima new wave. Il testo è una critica diretta alla sovraesposizione digitale e alla sua capacità di svuotare le connessioni umane: “Se al posto del telefono tenessi la mia mano”, o l’orecchiabile “Meno mi piace, più mi piaci” descrivono bene il conflitto labile tra intimità reale e interazioni virtuali. Con “1990 – Come sentirsi vivi”, Pantalei celebra il suo amore per gli anni Novanta, abbracciando un’attitudine Oasis, evidente sia nella costruzione melodica che nelle estensioni vocali. Il testo si muove tra nostalgia e disillusione generazionale, con una chiara dichiarazione di non voler prendere parte alla violenza del mondo attuale: “Adesso cresco in questo mondo che minaccia la guerra / E voglio dirti già da adesso che io non la combatterò mai” . È un tema che di questi tempi risuona anche piuttosto attuale, tra l’altro. “Cheap Monday” è un’esplosione di adrenalina degna degli Strokes di Is This It: si apre con un travolgente fraseggio di chitarra iniziale, prosegue con un assolo secco e preciso a metà brano e si regge su ritmiche concitate che ricordano il groove irresistibile di certi passaggi di Antics, degli Interpol. Queste chitarre graffianti un po’ Pixies si sposano molto bene con il piglio del pezzo, che è energico, ribelle e grintoso; anche il testo incarna questa energia con la semplicità disarmante di un’idea che, pur essendo essenziale, diventa quasi rivoluzionaria: restare fedeli a sé stessi (“Ma questa volta io non cambio idea e vado avanti lo stesso”). “Subliminale” è senza dubbio la mia canzone preferita di tutto il disco: il riff iniziale, con due chitarre che dialogano su registri opposti, mi ha subito riportato alla mente “Obstacle 1” degli Interpol, sia per l’intensità che per la costruzione melodica, dove ho sentito anche qualcosa della tensione sonora di Silent Alarm dei Bloc Party. E a proposito di Interpol, nel bridge ho respirato a pieni polmoni l’atmosfera tra l’epico e il romantico di El Pintor: c’è una linea di basso pulsante e incalzante, che permette al riff di chitarra saturo e affilato di insinuarsi nel panorama sonoro, con un’attitudine che renderebbe fiero Daniel Kessler, e il suo uso nervoso e ipnotico dello strumento. E non va trascurato il testo, che trasmette un senso di immersione totale nell’altro (“Nuotare dentro i tuoi segreti è come perdersi in un mare di nuvole”), ma anche una luminosità evocativa (“A illuminare le sezioni più profonde del tuo cuore ci sono io”). E poi, da grande appassionato della penna di Paul Banks, quando sento la parola subliminale non posso non pensare a “Leif Erikson”, da Turn On The Bright Lights, e al suo iconico verso “She says brief things, her love’s a pony, my love’s subliminal”. C’è anche spazio per gli Arctic Monkeys di Humbug nei synth glaciali di “Crepuscolari”, che alimentano la tensione insieme alle chitarre intrecciate in trame serrate e incalzanti; è nei ritornelli, però, che il brano cambia volto, tingendosi di una solarità più spensierata e danzereccia, degna dei migliori Strokes. Il testo celebra la poesia come ultimo rifugio (“Scriverò poesie per te, le più belle che abbia letto mai”), con una tensione costante tra idealizzazione e disillusione. La successiva “Maledettismo Moderno” si distingue subito per la poderosa batteria, su cui si posano la voce e i riff di chitarra elettrica, che ne seguono il ritmo quasi a enfatizzarne la cadenza. Il testo affonda nella poetica del desiderio e dell’eccesso (“La mia vena è vergine, ma è il desiderio che è eterno”). C’è un’intensità che cresce gradualmente fino a sfociare nel bridge, dove l’energia accumulata esplode in un climax potente, tra chitarre che accelerano per poi confluire in una sorta di decadenza romantica, immagini evocative (“Tu mi sorridi stanotte / La nostra piccola morte”) e armonie molto eleganti. L’album poi si lascia pervadere da una dolce nostalgia beatlesiana dal sapore cinematografico con “Arcobaleno Elettrico”, che porta con sé l’eco malinconica di un’estate agli sgoccioli, un po’ alla Arctic Monkeys di Suck It and See. Il testo gioca con immagini che evocano quei luoghi interiori in cui ci si rifugia nell’infanzia (“Che cosa ti faceva stare bene quando i tuoi litigavano?”), ma anche con un senso di rinascita attraverso la luce (“Accendi luci che sono spente”); un verso che richiama, forse non casualmente, il celebre “It’s up to me now, turn on the bright lights” di “NYC” degli Interpol. Verso la fine, coro e pianoforte allargano il respiro del pezzo, fino a farlo sfumare in una chiusura morbida e ariosa, in linea con le atmosfere più serene degli Oasis. Poi c’è “Figli del Rock’n’Roll”, che per certi versi potrebbe ergersi a manifesto dell’anima del disco: una dichiarazione d’intenti che afferma un’identità senza compromessi, tra riff che non sfigurerebbero affatto nel repertorio di Julian Casablancas o Alex Kapranos e un basso pulsante dalle reminescenze Joy Division. Il testo è una celebrazione della libertà, con un’energia che richiama il senso di appartenenza a una generazione musicale (“Ho voglia di tornare i bambini di ieri / Oh, noi siamo i figli del rock’n’roll”). La stessa appartenenza la ritroviamo anche nella conclusiva “In Inghilterra, Amore”, dove il timbro caldo di chitarra acustica dal sapore britpop e la voce in primo piano guidano il brano verso un climax orchestrale di pura grandiosità alla Noel Gallagher. Impossibile non emozionarsi quando Pantalei ripete a gran voce il suo liberatorio rifiuto delle convenzioni, come fosse un mantra: “E non è l’università, la politica o l’economia a darmi energia / per sentirti mia”.
Alla fine di questo viaggio tra distorsioni, intuizioni e slanci melodici, Poeti, Vampiri & Veneri Punk lascia il segno con la sua urgenza, che si traduce in chitarre incandescenti e melodie che restano a lungo in testa; ma anche con uno sguardo lucido e consapevole sul tempo che passa, su ciò che resta e ciò che cambia. È un disco che suona come un atto di resistenza, che guarda alla tradizione rock senza limitarsi alla celebrazione del passato, ma piuttosto con l’energia fresca e moderna di chi vuole continuare a crederci anche (e soprattutto) oggi. E in questo, i Panta dimostrano di non essere solo il riflesso delle loro influenze, ma di saperle modellare fino a farle proprie: la loro identità vive nel delicato equilibrio tra ciò che li ha formati – dal post-punk revival al britpop, fino al rock alternativo d’oltreoceano – e la sensibilità lirica del miglior cantautorato italiano. Ed è proprio questo connubio, in fin dei conti, a rendere i Panta unici, riconoscibili e soprattutto, profondamente autentici.
(Autoprodotto, 2024)
1. Finale di Stagione
2. Cirstalli Liquidi
3. 1990 – Come sentirsi vivi
4. Cheap Monday
5. Subliminale
6. Crepuscolari
7. Maledettismo Moderno
8. Arcobaleno Elettrico
9. Figli del Rock ‘n’ Roll
10. In Inghilterra, Amore8.0