(Autoproduzione, 2013)
01. Salix Babilonica
02. Anemone
03. Kethosi
04. Euphorbia
05. Abutilon (pt. I)
06. Boletus Satana
07. Methamorphosis
08. Abutilon (pt. II)
Qual è il fattore che distingue una demo da un disco? E una demo da una pre-produzione? Molto spesso nel circuito delle autoproduzioni non è facile tracciare una linea netta tra i tre prodotti e decifrare gli intenti di una band. A grandi linee penso si possa affermare che un disco (o uscita ufficiale) richiede certamente maggiore cura rispetto ad una demo – sia nella scelta dei brani, dei suoni e dell’artwork – e a sua volta una demo deve essere più curata di una pre-produzione la quale, a rigor di logica, dovrebbe circolare quasi esclusivamente tra gli addetti all’arrangiamento e alla futura registrazione di un disco, e non altrove. Se poi si vuole essere più analitici ancora si può dire che sia demo che disco, vista la loro funzione divulgativa, richiedono che i pezzi scelti siano maturi a sufficienza per essere registrati – e quindi cristallizzati in una forma più o meno definitiva – e poi condivisi con un potenziale pubblico. Certo, ci sarebbero molti altri fattori da considerare per descrivere il concepimento e la gestazione che portano ad un parto discografico, come ad esempio le possibilità materiali (tempo e soldi, principalmente) messe in campo per impreziosire il prodotto piuttosto che il tempo passato ad arrangiare i pezzi stessi, ma questo è un altro paio di maniche. Il caso di Freesia dei Picea Conica si colloca dunque a metà tra il concetto di demo – appoggiato dalla band stessa – e quella che sembrerebbe una pre-produzione realizzata per ascoltare alcuni brani in una fase intermedia di un loro possibile sviluppo. Questo non vuole essere un giudizio di alcun tipo ma piuttosto un’osservazione obiettiva riguardo alla forma dei pezzi e ai suoni che li contraddistinguono.
Partiamo quindi dal sound del duo di Forlì. Il lavoro incomincia con “Salix Babilonica”, un brano che delinea sin da subito le coordinate sonore dei Picea Conica: batteria menata con rullante squillante e chitarra pesantemente distorta ed effettata si intrecciano per ricreare un suono compresso e oppressivo. Salvo qualche insicurezza nei cambi di tempo (3’35’’) il pezzo si rivela un discreto apripista. Il successivo “Anemone” ripropone pressoché la stessa scansione ritmica del primo brano ed è contraddistinto, oltre che dall’uso del wah-wah, da numerosi cambi di tempo che lo rendendolo ricco di spunti da una parte ma estremamente confusionale dall’altra. “Kethosi” parte con un riff tellurico effettato dal delay che ricorda gli incubi del JK Broadrick d’annata, ma si attorciglia su se stessa a partire dal minuto 2’28’’ per poi riprendersi in extremis su un mid-tempo messo in chiusura. “Euphorbia” chiama in campo la marzialità sia degli Zeni Geva che degli Helmet screziandola con dei riff che ricordano i primi Korn. Tra i restanti pezzi merita attenzione il pregevole inizio di “Methamorphosis”, che vede l’accostamento di una triade di accordi puliti e melodici ad un riff distorto e onirico, soluzione che purtroppo viene abbandonata in favore di un riff (volontariamente o involontariamente?) atonale e ritmicamente slegato rispetto all’intro. Freesia si conclude con “Abuthilon pt. 2” che nuovamente strizza l’occhio ai Korn ma non aggiunge niente di nuovo a quanto ascoltato in precedenza.
Quando i Picea Conica dicono di far riferimento a band come Unsane, Melvins, Neurosis, Zeni Geva, Helmet e Godflesh c’è assolutamente da credergli, il problema è che a questi maestri il duo sembra essersi ispirato limitandosi ad accostare e cucire assieme idee ritmiche e riff presi a prestito qui e là e rivelandosi così capace sì di assimilarne le soluzioni, ma non di riproporle in chiave personalizzata e soprattutto fluida. Alcuni passaggi paiono lasciati al caso (il finale di “Abutilon pt. 1”, ad esempio) e in generale l’intero lavoro pare un po’ improvvisato o quantomeno arrangiato in maniera approssimativa, tanto più trattandosi del prodotto di un duo strumentale, dove per evidenti limiti logistici le soluzioni – ridotte all’osso già in partenza – richiederebbero il doppio dell’attenzione. Questo non per dire che le tracce siano brutte, ma piuttosto che non si distinguono una dall’altra e che in generale il senso di angoscia e alienazione suscitato non è generato dalla materia sonora in sé ma dal suo reiterarsi di traccia in traccia. In realtà di momenti interessanti ce ne sono, ma la natura eterogena dei pezzi rende difficile anche ad un ascoltatore attento isolarli dal marasma di riff. Che il duo abbia voglia di menare duro e che provi un certo gusto a snocciolare riffoni cadenzati e massicci è fuor di dubbio, e chi in effetti non godrebbe nel sentire sfrigolare alle proprie spalle i coni dell’ampli durante un bel palm-muting? Il fatto è che non sempre le sensazioni provate dagli esecutori sono le stesse suscitate negli ascoltatori, e a lungo andare tale ripetitività marmorea senza sfoghi appesantisce parecchio l’ascolto. La mancanza di una voce non facilita di certo le cose: in più di un brano la presenza del cantato potrebbe rivelarsi un salvagente da gettare a mare per scongiurare l’affogamento in un oceano di riff altrimenti fini a se stessi. De gustibus. Se i suoni non sono male per essere frutto di un’autoproduzione, mi pare invece doveroso osservare che andrebbe forse spesa più attenzione ad alcuni particolari – a partire dall’accordatura della chitarra in fase di registrazione – oltre che alla costruzione dei pezzi, che, come già detto, risentono di una certa monotonia/approssimazione a livello di soluzioni armoniche e ritmiche.
È invece bello sapere – così ci scrive in un comunicato il duo stesso – che la musica unisca e appassioni ancora a quarant’anni, in un periodo storico in cui l’italiano medio pare invece assorbito da tutt’altri interessi. Per concludere, e sperando di aver dato una risposta alle domande con le quali ho iniziato questa recensione, voglio parafrasare il titolo di un brano della demo e augurarmi che i Picea Conica, come un bozzolo in attesa della propria metamorfosi, riescano col tempo a tramutarsi in un’affascinante farfalla notturna.
5.5