Dietro al nome artistico di Pinhead si cela il polistrumentista, produttore, cantautore e cantante Ilja John Lappin, ai più noto per la sua militanza, come bassista e seconda voce, nei tedeschi The Hirsch Effekt. Questi non sono altro che alcuni degli esempi migliori di come si possa suonare musica tecnica, complessa, estrema e al contempo non snobbare la melodia, gli arrangiamenti di classe e quel gusto retrò che rimanda al pop anni Ottanta. Egomessiah è un progetto completamente firmato dal buon Lappin, con la presenza di altri musicisti e un piccolo contributo da un altro produttore di punta della scena alternative europea, ossia Tobzen; sul disco, che dura più di un’ora, troviamo i concetti e la filosofia che da sempre accompagnano la band madre, quindi riflessioni sul vivere male nella società odierna, l’eccessiva competizione tra gli individui che porta al progressivo isolamento sociale, arrivando a tracciare un quadro della decadenza culturale che negli ultimi due decenni ha visto aprire un baratro sotto tutti noi.
Lappin scrive testi interessanti, utilizza spesso metafore, ha una sua poetica, il che regala ai testi una capacità di specchiarsi in chi legge (e ascolta) che ha del disarmante. Musicalmente l’album si distacca leggermente dal suono del trio di Hannover. In molte tracce è il nu metal a farla da padrone, con tutte le sfumature che un genere così fondamentale ha sempre saputo portarsi dietro. Altro genere che risalta notevolmente nel disco è il djent (che non amo se non in piccole dosi, e qui il “quanto basta” viene decisamente bypassato, oppure se concepito in supporto al brano e non, per citare in parte il titolo del lavoro, quando c’è un ego da pompare oltremodo). Per tutta la durata del lavoro si assiste ad un lavoro di cesello di Lappin che sa unire l’irruenza del djent e il disagio tipico del nu metal alla melodia, che trova terreno fertile in linee vocali praticamente sempre perfette nei cori, e al romanticismo retrò dei synth che ci fanno fare un tuffo nel passato; siamo negli anni Ottanta, la new wave è l’unica plastica che non inquina, il punk fa sentire ancora i suoi odori di ribellione, il basso – e qui viene fuori la natura musicale del Nostro – diventa una seconda voce con quel costante pulsare in ogni traccia. Il disco vede le prime sei tracce andare a costituire un monolitico tributo al nu metal, al djent, al pop. “Lapse” è bipolare tra rabbia primordiale e aperture ruffiane scalaclassifica, “Violetor” è un brano dei VOLA coverizzato dai Deftones in orbita attorno al pianeta punk mentre “Absurdist” è più stratificata con una continua alternanza tra synth e melodie vocali che vanno quasi a scontrarsi, mentre nei momenti concitati il djent sbrodola in territori deathcore. Il trittico “In Recent Times”, “I I I” e “Used Future” eroga generose dosi di un nu metal violento e tirato nelle strofe, dove la voce di Lappin diventa un lamento quasi insostenibile ma così adatto, direi perfetto, per un tour guidato nelle sofferenze di tutti noi. Dopo una serie di schiaffoni Egomessiah si prende un attimo di respiro e lo fa con tre brani che vanno a comporre una sorta di flusso di coscienza. Partendo dalla cantautorale “Counterfate”, chitarra acustica e voce, si prosegue con la strumentale, solo piano, di “Serene Day” e lo sbocco sul mare di nostalgia new wave intitolato “Lonefall”, per una cascata di emozioni inaspettate. “Transition”, nome omen, sono ottanta secondi di musica che fanno da preambolo al pezzo più debole del disco, quella “Stigmatizer” che fondamentalmente è uno sfogo animalesco dove Lappin si fa prendere la mano dal caos incontrollato (da qui il suo cantato urlato in pieno stile deathcore) per un risultato finale che non risulta gradevole. Poco male perché poi arrivano i dieci minuti della conclusiva “Lesser Lights”, una suite di prog metal moderno – qui i VOLA sono ancora un punto di riferimento -, dove la sezione ritmica è letteralmente devastante e l’elettronica fa da raccordo con una sutura precisa.
In definitiva abbiamo tra le mani un lavoro sicuramente curato sotto l’aspetto lirico mentre sulla componente musicale c’è ancora da limare le eccedenze per strappare un’identità maggiore. Non un disco brutto, sarebbe un insulto affermare questo, ma un buon punto di partenza per i prossimi lavori autografi di Ilja John Lappin.
(NoCut, 2025)
1. Lapse
2. Violetor
3. Absurdist
4. In Recent Times
5. I I I
6. Used Future
7. Counterfate
8. Serene Day
9. Lonefall
10. Transition
11. Stigmatizer
12. Lesser Lights