Tra i vari membri della Church of Ra il chitarrista Lennart Bossu è certamente tra i più attivi, e i Predatory Void nascono proprio dalla sua mente. Durante la pandemia, vista l’impossibilità di suonare dal vivo, il chitarrista belga (che ha già esperienza con Amenra, Oathbreaker, Living Gate e non solo) ha passato molto tempo a comporre e registrare per conto suo, e questo progetto è nato proprio da queste idee che non si prestavano a venire usate in altri suoi progetti. Con una line-up di tutto rispetto che vede coinvolti musicisti esperti è nato Seven Keys to the Discomfort of Being, un debutto ferale, che dietro a una facciata aggressiva nasconde un sound colossale e mordace, ben curato nei dettagli, che non si limita alla cattiveria nuda e cruda. Nella formazione militano anche Tim De Gieter (Amenra, Doodseskader) al basso, Vincent Verstrepen (Carnation) alla batteria, Thijs de Cloedt (Cobra the Impaler, ex-Aborted) alla chitarra e Lina R. (Cross Bringer, ex-The Homeless Is Dead) alla voce.
Tra i vari progetti in cui militano i membri del gruppo quello con cui si possono sentire più affinità sono chiaramente gli Oathbreaker, per la presenza del suddetto chitarrista, di una voce femminile e di sonorità affini tra black metal e sludge. Lo stesso Bossu ha definito i Predatory Void come i fratelli più odiosi dell’altra band connazionale, e infatti nel corso dell’ascolto si percepisce un distacco dai tocchi più introspettivi e a tratti eterei che stavano prendendo il sopravvento nel sound degli Oathbreaker in lavori come Rheia, favorendo così un impatto più immediato e imponente. I cinque minuti e mezzo dell’opener “Grovel” introducono l’ascolto sintetizzando vari elementi che nei pezzi successivi torneranno a rubare la scena. Si parte con degli immancabili riff monolitici, che sprigionano una furia black metal, ai quali nel corso del brano si alternano comunque attimi più riflessivi, tra misteriosi tocchi in pulito e passaggi che per la loro intensità, seppur molto vagamente, ricordano gli Amenra, specialmente quelli del più recente De Doorn. Su questa contrapposizione tra veemenza e accenni enigmatici si ergono le influenze post/sludge del sound dei Predatory Void, e fanno il loro sporco lavoro specialmente in brani come “Endless Return to the Kingdom of Sleep”. Dopo l’intermezzo introspettivo “Seeds of Frustration” si passa alla seconda metà del disco, in cui le trame si fanno ulteriormente ossessive, e viene sfruttato al meglio l’estro compositivo dei Nostri. Gli ultimi tre brani sono leggermente più ostici da affrontare a primo impatto, con l’intensità che cresce, sempre più scabrosa, fino alla conclusiva e malsana “Funerary Vision”. Tra le parti di chitarra, con il loro intrecciarsi di trame distorte e irruenti ad altre pulite, e la voce di Lina R. che offre a sua volta un’ottima alternanza tra un growl impetuoso e il pulito, le composizioni della band belga sono asfissianti e lasciano chiaramente il segno.
Seven Keys to the Discomfort of Being è un album risoluto e schietto, che appare immediatamente deciso e col succedersi dei brani enfatizza sempre di più le sensazioni angoscianti delle sue atmosfere. I Predatory Void si presentano così senza mezzi termini, mettendo in mostra un sound tagliente che si avvicina per certi aspetti a quello di altri gruppi in cui militano i membri ma prendendo una direzione tutta sua per come si amalgamano le sue caratteristiche.
(Century Media Records, 2023)
1. Grovel
2. *(struggling..)
3. Endless Return to the Kingdom of Sleep
4. Seeds of Frustration
5. The Well Within
6. Shedding Weathered Skin
7. Funerary Vision