“Questo è un disco davvero pesante”.
Sicuramente è un’asserzione che tutti coloro che ascoltano musica estrema (o underground o di controtendenza) si saranno sentiti dire o avranno detto loro stessi. Ma cosa rappresenta davvero l’aggettivo “pesante” in relazione ad un prodotto musicale? Sicuramente, considerando la natura astratta della musica, tale definizione può acquisire di significato solo soggettivamente, dato che ognuno di noi ascoltatori accosta al termine “pesante” questa o l’altra suggestione o stilema. Tale definizione trova un parere per lo più univoco però quando si parla dei Primitive Man che, ad oggi, sia pubblico che critica non sbagliano di molto a definire come una delle band più “pesanti” dell’intera scena estrema mondiale.
A tre anni di distanza dal precedente, emblematico, full length Caustic (Relapse Records, 2017), – disco che sicuramente va riconosciuto come una pietra miliare sia nella discografia della band che dell’intero genere – l’outfit sludge/doom death metal di Denver torna a realizzare un prodotto di ampio minutaggio con Immersion, uscito il 14 agosto 2020, rinnovando, ancora una volta, la collaborazione con Relapse Records, che ha prodotto il full length in CD/digital, vinile 12” e tape cassette, soddisfacendo anche gli appetiti più ricercati di audiofili e collezionisti.
Sebbene la discografia della band americana sia abbondante, nonché costellata di split notevolissimi, come i due realizzati uno con gli Unearthly Trance ed uno con gli Hell (realizzati negli anni intercorsi tra gli ultimi due full), e nonostante un catalogo che non riporta un passo falso, e che semmai si contraddistingue per un evoluzione costante ed inesorabile, Immersion, come dichiarato dal cantante chitarrista della band Ethan Lee McCarty, si getta a capofitto verso “un punto di non ritorno”. Già dal primo ascolto del disco ci si renderà conto (specialmente per chi ha seguito la band) di essere di fronte ad una delle punte di diamante della discografia dei Primitive Man, rappresentando la magnificazione e l’esaltazione di tutte le caratteristiche e degli stilemi che hanno contraddistinto l’operato della band dai suoi albori. Dunque i 35:59 di quest’ultimo opus sicuramente costituiscono nemmeno la metà del playing time del precedente Caustic, che assembra un titano abominevole di 12 brani svolti in più di 77:15 minuti, eppure, nonostante i tipici tempi dilatatissimi suggeriti dal peculiare sludge/doom death – intriso di noise – suonato dal trio del Colorado, Immersion è irrimediabilmente esaustivo nella sua durata “modesta”, andando dritto al punto più che mai. Fin dai momenti iniziali della prima traccia “The Lifer” è evidente quanto questo disco sia autentico, ispirato ed intriso avidamente dall’oscurità dei tempi in cui viviamo. Difatti lo stile della band è viscerale, marchiato da una risolutezza e da un caos atavico, ma al contempo le tematiche affrontate sono quantomai d’attualità, riflettendo il delirante orrore del declino di un mondo che collassa su sé stesso. La formula stilistica di base è quella che contraddistingue la band da sempre, ovvero tempi morbosamente dilatati, alternati a mid-tempo marcianti ed inesorabili e, come nelle battute iniziali di “Menacing”, si riscontrano anche furiose sezioni di blast beat (alla death/doom maniera). Le vocals ferali dell’enorme Ethan Lee McCarty perseguitano l’ascolto con massimo disprezzo, sostenute da atroci dissonanze di chitarra e basso che fanno appassire ogni forma di vita, accostate da noise selvaggi che destrutturano la concezione di spazio/tempo e lasciano con l’unica sensazione di vuoto sotto ai piedi. Un ulteriore pregio delle vocals sta nella (parziale, per ovvi motivi, ma comunque presente) intelligibilità delle lyrics, marchiate da un accecante nichilismo, che distilla un veleno fatale, in cui l’album si intinge dal primo all’ultimo istante. Le linee di basso di Jonathan Campos sono minacciose e stagliano ad ogni movimento un leviatano all’orizzonte, che abbatte la sua furia ripetutamente, operando in un registro melodico/ritmico volutamente circoscritto, ossessivo ed unico nel suo genere, il cui unico intento è annichilire e travolgere indistintamente qualsiasi cosa gli si pari di fronte. Del basso è apprezzabile anche l’aspetto sonico, che accosta intelligibilità ad efferata violenza, dualità per nulla scontata. Il drumming di Joe Linden è indispensabile per completare l’invenzione orrida del trio, quindi i pattern ritmici si presentano ora minimali e marziali, ora furiosi e spietati, sottolineando in ogni caso i momenti di maggiore prevaricazione del disco. A coadiuvare un immaginario brutalmente crudo ed aderente ad una miseria più vicina di quanto possiamo sperare, per i brani “The Lifer”, “Entity”, “Menacing” e “Consumption” sono disponibili dei disturbanti videoclip che si avvicinano moltissimo ad una nottata di incubi e sudore freddo. L’uso degli strumenti, dei processi sonori e compositivi (come tradizionalmente vuole la band) è originale e sfocia nel noise asfissiante ed ossessivo, come “Entity”, brano in seconda posizione nell’album, in cui la chitarra diventa un drone che emula uno sciame di insetti infestanti che perseguitano l’ascolto per più di quattro minuti, supportati da un lentissimo build up di basso e batteria. Riguardo la natura, duale ma unitaria, della band di Denver bisogna ricordare la discografia parallela (o integrante, a seconda del punto di vista) sviluppata con album di apocalittico harsh noise/drone quali Steel Casket (Tartarus Records, 2018 – recensione qui) o P//M (Tartarus Records, 2015), i quali fasti vengono ripresi in Immersion dall’intermezzo “∞”, ovvero un breve squarcio di ispiratissimo e coerentissimo (specialmente considerato il mood dell’album) harsh noise celebrale, che si erge imperituro ad atto di pura violenza sonica. A seguire si trovano i brani “Foul” e “Consumption” che, nonostante costituiscano l’ultima parte del disco non retrocedono di un passo in termini di rabbia ed autentica risolutezza, piuttosto continuano l’avanzata di Immersion con solerzia marziale ed imperturbabile. Il comparto ingegneristico del disco realizzato da Ben Romsdahl e Todd Divel al Juggernaut Audio di Denver, con conseguente mix e master di Arthur Rizk, porta il disco ad un livello anche sonico altissimo, che magnifica al meglio l’espressione della band, nonostante quest’ultima, per sua natura, non sviluppi materia musicale/sonora di facile trattamento e manipolazione.
È con l’autenticità che li contraddistingue sin dal loro debutto discografico nel 2013 che gli statunitensi Primitive Man realizzano un album abissale, gravido del peso dell’esistenza dei giorni nostri. Con quest’opus l’ago della bilancia è perfettamente centrato tra la riproposizione del loro linguaggio peculiare e la stesura di nuovo materiale, di certo adeguatamente contemporaneo. Il trio quindi non si/ci fa mancare le caratteristiche peculiari che hanno affermato la band ad oggi come assoluto titano del genere, stavolta potendo oltretutto attingere a piene mani dal peculiare orrore dei tempi odierni, che in Immersion viene trasdotto 1:1 in un prodotto musicale asfissiante, disilluso e quantomai patogeno, che riflette un ineluttabile collasso interiore sia metaforico che concreto. Il risultato quindi è una vetta altissima per l’intero genere, un disco imprescindibile ed un candidato validissimo ai migliori dischi di un infelice 2020.
(Relapse Records, 2020)
1. The Lifer
2. Entity
3. Menacing
4. ∞
5. Foul
6. Consumption