Proseguiamo il nostro racconto del Roadburn 2016: il secondo giorno è stato principalmente la grande festa organizzata da Lee Dorrian, chiamato come curatore della programmazione sul Main Stage. Noi, però, come molti altri, abbiamo preferito concentrarci su alcune esibizioni teoricamente minori, limitandoci ad alcune rapide incursioni nella sala principale (ve l’avevamo detto, no, che ci saremmo accampati al Patronaat?). Vi offriremo anche qualche spunto su queste “toccate e fuga”, ma principalmente oggi parliamo dell’enorme carisma di Steve Von Till, delle preoccupanti amnesie di Scott Kelly, dell’esagerato entusiasmo suscitato da Colin degli Amenra, delle inaspettate suggestioni dei Lychgate e della nuova scena black metal islandese facente capo ai Misþyrming, che con una performance collettiva di grande impatto ha lasciato un segno indelebile su questa edizione del Roadburn.
Live report a cura di Ico
Fotografie di Anna
HEXVESSEL & ARKTAU EOS: Mirror Dawn
La nostra giornata comincia proprio al Patronaat, dove riusciamo ad assistere a parte dell’esibizione congiunta di Hexvessel e Arktau Eos. Come è facile immaginare, il coinvolgimento di quest’ultimi dà vita ad un live show che esalta ulteriormente l’anima freak di Kvohst, e a conti fatti è proprio il repertorio degli Hexvessel a giovare maggiormente di questa performance collaborativa nominata Mirror Dawn. L’atmosfera sacrale e sognante rende lo show più particolare rispetto a quello della giornata precedente, a conferma del fatto che la svolta “bucolica” dell’ultimo When We Are Death ha fatto perdere un po’ di mordente ad una band che faceva della componente onirica il suo punto di forza. In breve, quello di Hexvessel e Arktau Eos è stato uno show particolarmente interessante, che ci ha confermato come questi due progetti abbiano senz’altro molto da dirci.
DIAMANDA GALÁS
Sono le 15.50 e decidiamo di fare un salto al Main Stage. Ciò che troviamo è molto diverso da ciò che avevamo lasciato la sera prima: non c’è nessuno ai bar, ovunque sono appesi cartelli che vietano le foto e ad ogni porta un addetto informa che sarà vietato l’uscita dalla sala se non nelle pause: in poche parole, sta per esibirsi Diamanda Galás. Sono in molti i curiosi che affollano la sala “blindata” quando, con un lieve ritardo “da diva”, la performer greca entra in scena per sedersi davanti al suo pianoforte. Il silenzio sulle prime è quasi religioso, ma quando la Galás comincia a sfoderare il suo repertorio di gorgheggi e vocalizzi “estremi” ci si ritrova quasi a sorridere guardando certe facce perplesse in mezzo al pubblico. È evidente come uno spettacolo simile sia abbastanza fuori luogo persino in un festival tanto eterogeneo come il Roadburn. Infatti dopo una decina di minuti, alla prima pausa, un grido disperato rompe il silenzio chiedendo di aprire le porte e un buon numero di persone si accalca per uscire: anche noi decidiamo di seguire il flusso e lasciamo la sala. Siamo dei barbari, lo sappiamo.
STEVE VON TILL
Quella che nel frattempo sta per cominciare al Patronaat è per noi una performance anche più esclusiva di quella della cara Diamanda. Infatti, mentre Scott Kelly passa dall’Europa quasi ogni anno, vedere Steve Von Till imbracciare la chitarra acustica è un’esperienza davvero rara. Subito si può notare come il suo approccio sia molto diverso da quello del fedele compagno di scorribande nei Neurosis: anche assistendo ad un concerto della band-madre si può notare come Von Till sia il “secchione” tra i due, ma ciò appare ancor più chiaro vedendolo in questa veste, composto e con tanto di leggio davanti. La sua voce profonda e il suo sguardo glaciale, però, tradiscono un velo di sincera emozione mentre ripropone in particolare i brani del bellissimo disco uscito l’anno scorso: A Life Unto Itself contiene pezzi decisamente lunghi e strutturati, che dal vivo acquistano grande profondità e non annoiano neppure per un secondo. Il pubblico ascolta in religioso silenzio, un comportamento che Von Till non manca di elogiare, esprimendo sentiti ringraziamenti ad ogni ovazione che i presenti, adoranti, gli tributano. Tutti sono consapevoli della portata dell’evento, e di conseguenza l’atmosfera nella sala, strapiena, è carica di emozioni reciproche, capaci di dare vita ad un concerto davvero speciale. Le nostre aspettative, come quelle di tutti, crediamo, sono state ampiamente rispettate.
SCOTT KELLY
Nonostante la minore esclusività dell’evento decidiamo comunque di conservare il nostro posto a ridosso del palco per assistere anche all’esibizione di Scott Kelly. Il barbuto cantante/chitarrista, dopo essere entrato con il suo solito ciondolare “scazzato”, si mette a scrutare i presenti con lo stesso, fiero sguardo di sfida ostentato mentre suona con i Neurosis. Nessun leggio ovviamente per l’istintivo Scott, che ha concluso l’ultimo tour europeo meno di un mese fa: eppure, il suo non sarà uno show privo di sorprese, positive ma anche negative. Gli highlights sono sicuramente le riproposizioni del classico “The Ladder In My Blood” e di “We Let The Hell Come” (pezzo composto dagli Shrinebuilder ma inciso unicamente da Kelly in The Forgiven Ghost In Me), al quale segue la cover di “Cortez The Killer” di Neil Young. Arriva poi il momento di un altro estratto da The Wake, ovvero “Figures”: peccato però che Kelly, iniziato il pezzo, si fermi per chiedere la prima linea del testo al pubblico, il quale si mette a ridere pensando ad uno scherzo, finché qualcuno davvero se ne esce con “Still waters in me”. La scenetta si ripete a metà pezzo, e i più accolgono tutta la situazione con una nervosa risata, ma a noi invece vengono i brividi a pensare che forse il buon Scott stia perdendo colpi. Con questo tarlo nella testa non riusciamo a goderci appieno la chiusura, un duetto con Colin degli Amenra sulla cover di “Tecumseh Valley” dell’immancabile Townes Van Zandt. Per carità, un simile incidente di percorso può capitare a tutti: quando però capita ad un personaggio di questo calibro la sensazione non è delle migliori.
CHVE ft. VERMAPYRE
CHVE, ovvero Colin H Van Eeckhout, ovvero: il grande trionfatore del Roadburn 2016. Nell’area del merchandise il banchetto degli Amenra supera quello dei Neurosis, Tilburg fin dal giovedì è letteralmente invasa da magliette inneggianti alla Church of Ra e ogni esibizione coinvolgente gli Amenra o qualcuno dei suoi membri è stata accolta con un entusiasmo davvero notevole. Assistere alla performance solista di Colin è diventato dunque per noi quasi un “dovere giornalistico”, e di conseguenza il giudizio sulla stessa non può prescindere dall’importanza che a essa è stata data da tutti i presenti. Tutto questo per dire che il progetto CHVE, concretizzato su disco dal recente Rasa, ci è apparso alla prova del live poco più che un divertissement poco meritevole di seguito. È sicuramente interessante l’utilizzo della ghironda, e sempre più “calda” è la voce pulita di Colin, ma dopo un quarto d’ora gli elementi di curiosità cominciano a svanire; proprio a questo punto però s’innesta il contributo del progetto Vermapyre: dietro a tale nome si cela nientemeno che Dwid Hellion degli Integrity, da tempo intento in sperimentazioni noise che nulla hanno a che vedere con la band madre. La somma delle parti però, ancora una volta, non ci convince. I rumori di Hellion fanno scomparire il sound etereo di CHVE: se un punto d’incontro tra i due c’è stato, noi non l’abbiamo notato. Dopo mezz’ora abbondante proprio non abbiamo capito dove i due volessero andare a parare.
Nel frattempo sul Main Stage si consuma la festa di “bentornato” a Lee Dorrian, alle prese con una delle prime esibizioni della sua nuova band, i With The Dead. Alla chitarra c’è Tim Bagshaw degli Electric Wizard, al basso Leo Smee dei Cathedral: unite i puntini e capirete cosa propone questa nuova band, di fatto erede dei da poco defunti Cathedral. L’atmosfera è quella del piacevole revival, ma i suoni ci appaiono decisamente alti, così come troppo alto ci pare il numero dei presenti: dopo una decina di minuti, sufficienti per capire come dal vivo i With The Dead mantengano le promesse espresse nel buon debutto (se siete fan del genere, recuperatelo senza pensarci due volte), preferiamo andare a riempirci la pancia e riposarci in vista dei due concerti che intendiamo seguire durante la notte.
LYCHGATE – An Antidote For The Glass Pill
Forse il nome dei Lychgate non è ancora ben noto nemmeno ai tanti blacksters più open-minded che pure godrebbero assai del loro operato. Dopo il promettente esordio del 2013, nel quale il polistrumentista inglese Vortigen ha inciso alcune sue composizioni coinvolgendo nel progetto diversi personaggi, tra i quali Greg Chandler degli Esoteric, la band è tornata lo scorso anno con An Antidote For The Glass Pill, un complicato concentrato di avantgarde, black metal vecchia scuola e azzeccate componenti sinfoniche. Punto di forza di quel disco era infatti l’inserimento di un organo, eccezionalmente presente sul palco in occasione di questo concerto nella Green Room dello 013. Il risultato, complice un bilanciamento di suoni davvero ottimale, è assolutamente positivo: proprio come su disco, l’organo si fa protagonista nei momenti più drammatici, andando invece ad intrecciarsi con le chitarre, esaltandole, nei passaggi più concitati. La voce di Greg Chandler, a tratti sorprendentemente istrionico, appare perfetta in un simile contesto, reso sacrale dalla presenza scenica convincente di una band che non è assolutamente classificabile come irrepetibile e strambo studio-project. Magari l’organo risulterà spiazzante per alcuni, ma se pensiamo al grottesco risultato che ottengono certe band utilizzando basi pre-registrate, non possiamo non elogiare ulteriormente le capacità dei Lychgate di risultare credibili e sorprendentemente coinvolgenti pur proponendo una musica tanto ostica.
ÚLFSMESSA – Misþyrming: Artist in Residence
In molti si sono stupiti nel vedere i misconosciuti Misþyrming nelle vesti di Artist in Residence del Roadburn 2016. Noi eravamo tra queste persone: oggi, però, non possiamo non segnalare i giovani islandesi come una delle autentiche rivelazioni dell’anno. Complice l’affollamento nelle piccole sale in cui si esibivano abbiamo potuto assistere solo a pochi minuti dei concerti in cui i Misþyrming proponevano per intero il loro ottimo debutto Söngvar elds og όreiðu e il prossimo Algleymi; non potevamo però perderci la tanto pubblicizzata Úlfsmessa, l’esclusivo concerto/rituale che si sarebbe tenuto, per la terza (e ultima?) volta nel suggestivo Patronaat. Tale evento riunisce sul palco i membri di Misþyrming, Naðra, Nyiþ e Grafir, tutte band gravitanti nell’orbita dei Misþyrming e presenti nelle varie giornate del Roadburn in shows singoli. Le dinamiche che hanno portato alla creazione di questa sorta di “nuovo Inner Circle islandese” meriterebbero un approfondimento a parte, che per il momento vi risparmiamo: vi basti sapere, per ora, che sentirete sempre più spesso questi nomi, portatori di idee che ci sembrano tutt’altro che “modaiole” o passeggere.
Certo, ci sono cose che fanno sorridere nello show di questa sera: parliamo soprattutto della componente rituale (gli incensi sul palco, il passaggio del calice di vino tra il pubblico e altre amenità da “messa nera”) espressione di una superficiale “antireligiosità” e di un disagio giovanile che lascia il tempo che trova. Ciò che a noi interessa è la musica: e parlando di musica possiamo dire tranquillamente che in questa banda di terribili ventenni abbiamo trovato gli eredi dei Deathspell Omega. I Misþyrming hanno dimostrato con il loro debutto di avere brillantemente appreso e interiorizzato la lezione degli autori di Paracletus, arricchendola con intuizioni di glaciale sensibilità islandese: il loro sound tagliente dal vivo ha un’ottima resa, come possiamo apprezzare ascoltando i loro brani inseriti nella scaletta di questa sera. La particolarità della Úlfsmessa è però la riproposizione di pezzi tratti dal repertorio di tutti i progetti coinvolti, suonati in formazione allargata. Sul palco quindi sono presenti una decina di figuri in passamontagna: una trovata frequente negli ultimi tempi, ma stavolta non faremo commenti sarcastici, poiché la volontà di celare l’identità è funzionale all’intento di suonare materiale di uno o dell’altro gruppo senza lasciar capire chi lo stia suonando. Ed effettivamente in certi momenti è difficile capire cosa il collettivo stia eseguendo: i brani si susseguono senza pause, musicisti e cantanti si alternano senza soluzione di continuità mentre chi non sta suonando partecipa con suggestivi cori o interpretando qualche ruolo teatrale nella costruzione della “messa nera”. Appare comunque evidente quanto gli islandesi credano in quello che fanno: convinzione e confidenza nei propri mezzi diventano così ingredienti fondamentali nella buona riuscita
di uno show coinvolgente, sentito e a suo modo originale, che manda in visibilio i lungimiranti fans della band e incuriosisce i “passanti casuali” (la fila fuori dal Patronaat, lunga ma scorrevole, è testimonianza del ricambio continuo). Alle due di notte, dopo un’ora e mezza di concerto, il collettivo islandese conclude l’esibizione inscenando una sorta di “pasto rituale” in mezzo al pubblico, ennesima pacchianata che comunque risulta suggestiva se si pensa che il tutto si sta svolgendo all’interno di una chiesa sconsacrata (e alle spalle di una chiesa vera!). La Úlfsmessa però non poteva non essere anche questo, e noi siamo ben contenti di esserci beccati il “pacchetto completo”, perché nell’assistere a questo show esclusivo e del tutto particolare siamo stati anche testimoni della prima consacrazione internazionale di una scena ancora poco nota e in particolare di un gruppo, i Misþyrming, che se continuerà a evidenziare questa convinzione e queste capacità tecniche farà sicuramente tanta strada.