Blood Year è uno di quei dischi che sta perfettamente in bilico fra l’osare e restituire all’ascoltatore un gran lavoro e tutti i pericoli che un disco strumentale e sperimentale può comportare. I Russian Circles generano ancora una volta un piccolo capolavoro che a detta di chi scrive si colloca poco sotto il monumentale Empros, disco quantomeno intoccabile nella discografia della band americana.
L’enorme peculiarità, per lo meno avvertita, è l’ampio progredire dei brani, che sembrano un lento ed armonioso intro rispetto al fulcro di tutto il disco, nonché brano che mi ha colpito di più, “Milano”, e il successivo sviluppo che crea dei momenti di grande dinamica fra suoni delicati, soavi e derive violente e senza freni. Le doti dei Russian Circles emergono fin dai primi secondi, con la densissima “Hunter Moon” che chiarisce fin da subito il carico emozionale e qualitativo e il perfetto stato di salute del terzetto. Avere i brividi dopo soli dieci secondi di un album è un ottimo segnale, almeno nel mio personale metro di valutazione. Come prevedibile la qualità di suoni, produzione e arrangiamenti sfiora il maniacale, il lavoro congiunto di due titani come Ballou e Albini paga, e il tessuto sonoro di Blood Year è intenso, organico, estremamente sfaccettato e puntualmente personale.
Dopo il picco di “Milano” la band si destreggia in una giostra fatta di luci ed ombre, violenza e dolcezza, passione e scherno, in quello che rimane un album così estremamente coeso e vigoroso da non lasciar avvertire mai la mancanza di una voce. Un gioco pericoloso che paga, la cura di arrangiamenti e composizione porta alla luce l’enorme freschezza di idee della band, che mette in atto uno scenario molto vario e dinamico. Una densità e un’energia che ho avuto modo di constatare anche in sede live, intrinseca e profondamente radicata nel gruppo, situazione a mio avviso destinata a migliorare ancora, dato il deciso passo avanti che i Russian Circles hanno fatto rispetto le ultimissime prove in studio.
Difficile trovare altri brani che risaltino quanto “Milano” e “Hunter Moon”, che bene o male esprimono e svelano i due volti del lavoro in esame, contornati da un flusso quasi continuo di ottime idee. Non manca che augurarsi di rivederli live (possibilmente in uno show da headliner, non che la compagnia di Red Fang e Mastodon ci sia dispiaciuta) e chissà, scambiar con loro qualche parola.
(Sargent House, 2019)
1. Hunter Moon
2. Arluck
3. Milano
4. Kohokia
5. Ghost on High
6. Sinaia
7. Quartered