Chi, una decina d’anni fa, avrebbe mai scommesso sulle sorti del post rock strumentale? Fissati gli standard con una manciata di dischi e piantata la bandierina in cima alla vetta di un genere alternativo per eccellenza, c’era già chi prevedeva una brusca caduta una volta affacciatisi sul burrone delle ispirazioni da cui trarre nuovo slancio per il futuro. Ma al di là delle mode e dei pronostici, a quasi tre lustri dall’explosion (in the sky) di questo filone salutata dai più benevoli ‘godspeed’ del pubblico e della stampa specializzata di mezzo mondo, eccoci ancora qui a occuparci del genere-atlante che ha saputo riunire sonorità distanti anni luce come tanti punti sulla stessa mappa. E così come altre band – non troppe, però – anche i Russian Circles sembrano aver superato le asperità di un terreno che, una volta esplorato tutto nella sua apparente vastità, altro non ha rivelato se non profondi crepacci. Come ci sono riusciti? Interpretando questa mappa in modo saggio e disegnando una traiettoria personale che, se da un lato non li ha fatti uscire dal grosso bacino che un po’ tutti apostrofiamo per comodità con l’appellativo di ‘post’, di certo li ha fatti sopravvivere con dignità in mezzo ad un mare di altri viandanti e avventurieri.
È qui, a Guidance, il loro sesto disco che sono giunti infine, seguendo il loro filo d’Arianna senza per fortuna perdersi lungo un percorso che di contorto e labirintico ha avuto poco, ma che ha comunque dato loro l’opportunità di sondare meandri e vicoli ciechi del rock strumentale tutto senza mai incappare in un fantomatico Minotauro. E – cosa ben più importante – da quel filo, nel tempo, il trio ha saputo ricavare una trama dal ricamo elegante e dalla fibra forte, un tessuto che, oltre ad averli protetti dal freddo dei chiari di luna, non ha mai avuto bisogno di arabeschi per apparire più pregiato di quanto già fosse, e che oggi non stona pur sventolando da tempo lo stesso pattern. Linee, luoghi, immagini, trame, mappe. Linee che uniscono o marcano luoghi, luoghi e immagini che si susseguono o sovrappongono formando trame. È questo il divenire multiforme che scaturisce dalla musica della band, perché ascoltando un loro disco si ha l’impressione di essere proiettati in una dimensione di viaggio, dove paesaggi scorrono e si fondono a velocità differenti come trasmessi su uno schermo. In questo senso Guidance rappresenta una nuova perlustrazione del territorio sul quale i tre spaziano a volo d’aquila dal 2004, con ascese e picchiate vertiginose, planando su paesaggi tanto pacifici quanto spaventosi, carichi di un pathos che talvolta rievoca la vena romantica di un Wagner o del migliore Turner. In realtà poco è cambiato a livello stilistico: forse lo sono i suoni, massicci e affidati alle mani di Kurt Ballou dopo la parentesi Electrical Audio di Memorial, le atmosfere sembrano meno cupe e più ariose, ma i lenti sviluppi e passaggi dinamici dal forte al piano e viceversa sono rimasti gli stessi, e l’epopea post-metal a cui ci avevano abituati è di nuovo qui in tutta la sua grandeur. “Asa” apre con un arpeggio che odora di classico, rievoca pianure americane attraversate da una chitarra alla Ry Cooder e – come la sua diretta antenata “Memoriam” su Memorial – apre il sipario su “Vorel”, la prima traccia corale in cui convergono grossomodo tutte le sfumature ormai note del trio. La formula non è variata: la potenza e la dinamicità del drumming di Dave Turncrantz si ergono a sorreggere l’ordito dei restanti strumenti a corda, sapientemente maneggiati dal noto Brian Cook e dall’essenziale ma elegante tocco di Mike Sullivan, che da sempre gioca con amplificatori e loopstation per stratificare e orchestrare i suoi fraseggi. La padronanza assoluta del linguaggio e l’affiatamento dei tre si sentono ovunque: nell’incedere cadenzato di “Mota”, nell’epicità di “Afrika”, o nell’intermezzo pacifico di “Overboard” che anticipa l’abbattersi della tempesta di “Calla” ed infine di “Lisboa”, e per l’ennesima volta parlare di singoli pezzi in un contesto di tale omogeneità pare inutile, come interrompere il flusso delle immagini che costituiscono il tutt’uno del disco. Inutile dilungarsi pure sulle influenze, perché in fondo le conosciamo già tutte: echi di Isis e Pelican tra i vari, e comunque i primi a impostare – seppur in modo diverso – le coordinate di volo di un folto sciame di band a seguire.
E Guidance vola alto, senza però infrangere la barriera del suono né oltrepassare gli orizzonti della band, ma indicando come la velocità di crociera della band si sia assestata su un moto fluido ed ellittico che sa ancora scoprire particolari inattesi ad ogni nuova rotazione, quasi a ribadire che talvolta l’importante non è la meta, ma il viaggio.
(Sargent House, 2016)
01. Asa
02. Vorel
03. Mota
04. Afrika
05. Overboard
06. Calla
07. Lisboa