Quando la pandemia si abbatté su tutti noi furono moltissimi gli artisti che, confinati tra le quattro mura di casa, scelsero di non impazzire del tutto, andando a comporre musica usando il web in condivisione con altri musicisti. Sono nati così decine di dischi, di gruppi nuovi, anche solo di passaggio, e il primo album targato Scarcity venne generato proprio così. Nel 2020 Brendon Randall-Myers, polistrumentista di New York, scrisse la musica di Aveilut e chiese a Doug Moore, cantante dei Pyrrhon, di prestargli la sua ugola. Il disco verteva su un ibrido tra sperimentazioni black metal e deflagrazioni math. Quattro anni dopo, gli Scarcity tornano e lo fanno con una band vera: oltre ai due già citati abbiamo Lev Weinstein dei Krallice, Tristan Kasten-Krause, in orbita Sigur Ròs, e un altro membro dei Pyrrhon, Dylan DiLella alla chitarra. Una supersquadra che fa della sperimentazione – a tutto tondo e quindi non solo nel campo del metal estremo – il proprio ideale; The Promise Of Rain si rivela un gran disco di musica a 360 gradi.
“In The Basin Of Alkaline Grief” mette subito le cose in chiaro: una volta entrati nel mondo Scarcity non si può far ritorno. La band non fa sconti, non fa prigionieri. Un muro di chitarre monocorde, ripetitive, mille e più aghi nei nostri padiglioni auricolari, un mantra doloroso sul quale linee vocali disperate, sgraziate, colme di dolore vengono coadiuvate da un drumming anarchico; tutto suona selvaggio, un panorama post atomico, una landa desolata dove perdersi rappresenta l’unica via di fuga. In sei minuti la band di Randall-Myers ha già dettato la via, che sarà ovviamente un percorso di devastazione psicologica. La seguente “Scorched Vision” è una sorta di upgrade dell’opener, quindi ci troviamo al cospetto di un brano ancor più malato e visionario (oltre che di una durata doppia). Su di una base ritmica “statica” e straniante, i Nostri trovano anche il tempo di aprirsi al rock – sempre con le dovute proporzioni, s’intende – e di ispessire il songwriting con melodie che rimandano al mondo Isis/Baroness (che andremo anche a ritrovare più avanti nel disco). La voce di Doug Moore nel mentre mostra tutto il suo range vocale ed è quel tocco infernale che strappa più di un applauso. Dopo due soli brani mi trovo seduto a contemplare il panorama fuori dalla finestra, chiedendomi: è questo il paradiso? O è l’inferno che ci è sempre stato venduto male? In soccorso arrivano i due brani più “””deboli””” del lotto: la strumentale “Subduction”, che dovrebbe fungere da momento di stacco, di relax, ove prendere fiato e che invece si trasforma presto in un viatico dove la tensione rimane alta, costante e vibrante; la band predilige mantenere uno stato vigile di ansia e malessere. “Undertow” richiama il riff portante della prima traccia, c’è quindi continuità nell’elargire schiaffoni a tutto volume, vocals urlate e tonsille sparse dappertutto, ritmi lenti e spoken words – il post-hardcore scende nei vicoli più lerci della città e litiga aspramente con il noise – e qui il basso diventa potente e prepotente; un brano differente con un carica esplosiva ugualmente incredibile. Eppure, paradosso dei paradossi, questi due sono i brani meno riusciti – nonostante altre band darebbero un braccio per avere una scrittura di tale portata – e “Venom & Cadmiun” e la title-track sono a confermarcelo. La prima riprende il riff portante della seconda canzone nella tracklist – è piacevole questo continuo autocitarsi da parte del quintetto – e ci imbastisce una potenziale hit, un singolo dal facile airplay (sempre che si abbiano le giuste predisposizioni). Chitarre abrasive, abbozzi di assoli, free noise, accenni di improvvisazioni di stampo jazz, il noise nella sezione ritmica, cantato tra la Norvegia e il post-hardcore sporcaccione della provincia a stelle e strisce. La seconda è il tutto e il niente, il caos e la calma perpetua. Gli Scarcity decidono di chiudere l’album violentando il pentagramma con un brano che non è un brano ma un’arena nella quale cinque artisti fanno, singolarmente, quello che vogliono: vige solo la libertà creativa, prospera l’anarchia. Dopo tre minuti c’è una sorta di imbuto, poi riprendono da dove avevano iniziato con una ripartenza coesa, esacerbamento più totale, un cocktail letale di avanguardia, noise, sembra una jam session tra demoni di un altro mondo, un fiume di lava che devasta ogni residua certezza. Una chiusura estenuante, una sfida difficile – se non impossibile – da vincere, la cacofonia come una filastrocca sul tracollo eterno.
Brendon Randall-Myers insieme ai suoi compari ha tirato fuori un colpo mica male con questo The Promise Of Rain: ora non resta che temere il peggio, e goderne, con un prossimo disco che già si attende con trepidazione.
(The Flenser, 2024)
1. In The Basin Of Alkaline Grief
2. Scorched Vision
3. Subduction
4. Undertow
5. Venom & Cadmium
6. The Promise Of Rain