Stian Westerhus non è l’artista più semplice con cui approcciarsi. Figlio quasi illegittimo della lunga tradizione jazz norvegese, il Nostro fin da subito ha condotto i propri passi in ambienti ostili al sentire comune. Pur mantenendo saldi i legami col mondo che lo ha partorito, Stian ha spesso collaborato con artisti di svariata estrazione, sperimentando in diversi generi e facendosi conoscere soprattutto per il suo approccio poco ortodosso al concetto di composizione. Improvvisazione, noise, drone, ambient e jazz sono solo alcuni aspetti della poliedricità di questo artista unico nel suo genere. Col nuovo nato Amputation Stian continua sulle coordinate già intraprese grazie al disco Maelstrom (pubblicato col progetto Stian Westerhus & The Pale Horses), a suo tempo contaminato da una sorta di psych indie tenebroso e troneggiante.
Amputation è per certi versi il disco che si aspettava da anni da questo musicista. Il gusto compositivo dell’artista ha qui raggiunto vette di altissimo livello, riuscendo nel suo lavoro più organico e allo stesso tempo più contaminato. Ci si ritrova così immersi nella mente vera e propria del musicista, nel caos imperante della follia che domina la creatività di Stian e nella sua cupezza d’animo. Il suo è un altalenante equilibrio tra umori dissonanti ed una atmosfera tetra di fondo. La voce del norvegese, già mirabilmente apprezzata su Maelstrom, viene qui esibita al meglio (“How Long” è probabilmente uno dei brani più belli del 2016), tra toni baritonali e poetici falsetti, dimostrando una versatilità invidiabile. Trattandosi di Westerhus, la voce è ovviamente la prima cosa che balza all’orecchio, ma in breve tempo ci si rende conto della vera abilità del nostro: Amputation è infatti composto di soli duetti tra voce e chitarra, elaborate entrambe oltre ogni immaginazione. L’abilità di Westerhus nell’elaborare e sovrapporre soundscapes è qui riassunto in un lavoro degno del miglior effettista, tra diramazioni noise, drone ed industrial a veri e propri pattern electro. Se volete un’idea, provate ad immaginare un John Frusciante sotto analgesici, con la psiche turbata dai troppi ascolti a base di Scott Walker e SunnO))) e convinto di saper fare come Eivind Aarset, che decide di suonare un mix tra indie introspettivo, gotico e denso e la sperimentazione post più ottenebrante esistente, quasi a voler mischiare Radiohead, minimalismo e Chelsea Wolfe.
Questa è la definitiva conferma dell’immenso talento di questo musicista,in giro dal 2006, e ulteriore prova del gusto della House of Mythology, che con Amputation (insieme all’ultimo Ulver) dona al 2016 due dei dischi più belli dell’anno. Immergetevi dunque in questo “… lasciarsi ciò che è più prezioso e sacro dietro. Accettare la perdita, il danno e la sconfitta.” e respirate appieno cosa voglia dire sperimentare e saperlo fare. Occhio al pericolo di perdervi nelle sue trame però.
(House of Mythology, 2016)
- Kings Never Sleep
2. Sinking Ships
3. How Long
4. Amputation
5. Infectious Decay
6. Amputation Part II