Il 2016 è anche l’anno del ritorno di Robin Proper-Sheppard e dei suoi Sophia. Forse i più giovani non conosceranno così bene le gesta di questo musicista, fondatore, venticinque anni fa, di una band che ha lasciato un segno profondo negli anni Novanta e pure sulla musica del Terzo Millennio. Stiamo parlando dei God Machine, un’esperienza musicale unica e irripetibile, una band seminale che in pochi anni di carriera è rimasta impressa nei cuori di tante persone. Vi invitiamo dunque alla scoperta di questo gruppo unico nel suo genere, mai abbastanza celebrato, e dei due capolavori che ci ha lasciato, dischi di incredibile attualità e irraggiungibile qualità poetica.
Articolo a cura di Faro, Matteo Bozza e Diego Ruggeri
Chi erano i God Machine – a cura di Faro
Siamo agli inizi degli anni Novanta. Lo tsunami grunge ha travolto il mondo della musica, entrando nelle case della gente con album che rimarranno nella storia: su tutti Nevermind (1991) dei Nirvana e altri lavori di Alice In Chains e Pearl Jam. È proprio in questo periodo che iniziano a muoversi quattro ragazzi californiani che si trovano insieme per formare una band, chiamata Society Line. Tre di loro decidono di trasferirsi a Londra ma il quarto elemento non li segue; i tre membri rimanenti scelgono il nuovo nome The God Machine.
Ai tempi, e forse nemmeno oggi, nessuno di loro aveva capito veramente l’importanza delle loro capacità tecniche, della loro maestria nel manipolare tantissimi suoni e nell’esprimere in musica e poesia la loro frustrazione ed il loro disagio generazionale. I God Machine iniziarono a incidere EP nel 1991, ma già nel 1993 usciva il loro primo capolavoro; per loro la critica coniò l’inequivocabile definizione, unica nella storia musicale, di “cattedrale dei suoni”.
Tuttavia nel 1994, dopo soli due album, morì il bassista Jimmy Fernandez e sul resto della band calò una drammatica tristezza, che fece cessare di esistere la band. Il cantante e chitarrista Robin Proper-Sheppard proseguì il suo cammino musicale formando prima un’etichetta (la Flower Shop Records) e poi una band dal nome di Sophia, dentro alla quale vengono racchiusi stati d’animo tristi di tutto ciò che l’esperienza The God Machine, e non solo, ha lasciato dentro a Robin. I God Machine lasciano due album inarrivabili e seminali da avere e consumare nella maniera più assoluta.
scenes from the second storey (1993) – a cura di Faro
Dopo alcuni singoli i God Machine debuttano nel 1993, sotto l’etichetta Fiction Records, con l’album Scenes From The Second Storey. Il lavoro dura quasi ottanta minuti, dentro ai quali si eleva al massimo la personalità e la supremazia del trio nel maneggiare i propri strumenti. La voce di Robin spesso appare disperata e drammatica, mentre i suoi riff , gli assoli, gli arpeggi, i riverberi insieme alle distorsioni e i feedback creati dalla sua chitarra sono qualcosa di unico, un insieme di sonorità diversi che oggi potremmo catalogare sotto diversi generi, dal post rock al prog, fino ad arrivare al punk/dark passando dallo stoner e cadendo, inevitabilmente, nel tanto discusso grunge. Basso e batteria lavorano avvolgenti e precisi nel marcare ed evidenziare le prodezze che Robin riesce a mettere dentro a questo lavoro, incastrando tutto magnificamente. I God Machine, in tantissimi momenti, suonano in maniera drammatica, riuscendo ad avvolgere e penetrare dentro l’ascoltatore (si veda “Its All Over” oppure “Seven” e “Out”, nelle quali il dolore scava dentro di noi) mentre in altri momenti i tempi diventano più saturi, sostenuti e accattivanti (“Dream Machine” e la schizofrenica “She Said”). Non vi offriamo in questo caso alcuna disamina voluta dei brani, sarebbe poco utile perché siamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro degli anni Novanta, un disco che ancora oggi suona perfetto, seducente e dannatamente triste. Provate ad immaginare al momento della sua uscita cosa poteva sembrare: semplicemente non di questa terra.
Si dice che quando si attraversa il lungo corridoio che porta all’incontro con la morte si veda una luce bianca e una sequenza di tutti i momenti emozionanti della nostra vita. Sappiate che quando vi ritroverete in quel corridoio la musica in sottofondo sarà proprio quella di Scenes From The Second Storey, che vi accompagnerà al vostro appuntamento sulle note dell’incantevole “Purity” (con violini e archi) oppure della stupenda e arrogante “The Blind Man”.
I God Machine sono stati dei veri pionieri, inarrivabili artisti musicali capaci di lasciarci due dischi di rara bellezza: due perle che, non si capisce bene il motivo, non sono riuscite a brillare in tutte le case e a girare su tutti i giradischi. È davvero un peccato che nessuno ristampi tutto ciò che è stato fatto da questa band, in modo che più persone possano godere della straordinaria musica composta da queste tre persone uniche e speciali. Dopo l’assimilazione di questo lavoro la maggior parte delle uscite ricadenti oggi nei generi citati in questa recensione vi apparirà pallida e di poco valore; i God Machine con solo due album hanno scritto una storia musicale irripetibile. Dischi e band cosi non se ne trovano più in giro.
One Last Laugh In A Place Of Dying… (1994) – a cura di Matteo Bozza
Per registrare il loro secondo album i God Machine si spostano a Praga, confermando il buon rapporto instaurato tra la band californiana ed il vecchio continente. Siamo nel 1993, le sessioni di registrazione portano quattordici nuove canzoni ma anche una tragedia che colpisce duramente i God Machine: Jimmy Fernandez muore per colpa di un tumore celebrale totalmente inaspettato, un avvenimento che segna nel profondo Robin e Ronald, che poco tempo dopo scioglieranno la band.
One last Laught In The Place Of Dying… esce l’anno seguente per la Fiction e viene naturalmente dedicato a Our Friend Jimmy. L’artwork è volutamente minimale e lapidario, una cover totalmente bianca con solo incise le scritte nere a fare da contrasto; l’album ha la parvenza di un vero e proprio epitaffio. I brani all’interno tendono a spiazzare gli ascoltatori della prima ora. I toni heavy del primo disco vengono smorzati e sormontati da uno songwriting più intimista, in cui Robin con la sua poesia descrive la difficoltà del vivere e dell’avere rapporti umani.
Malgrado il cambio di rotta, tuttavia, la partenza è alquanto rumorosa e diretta. “The Tremolo Song” è l’anello di congiunzione tra le due opere: un brano reso affascinante dalla saturazione dei suoni e dal martellante chorus, quel “but i am just a simple man” che esce dalla voce strozzata di Proper-Sheppard gelando il sangue. Di seguito la caustica “Mama” si fa ricordare per il suo giro di chitarra ossessivo ed un testo duro come la pietra, che racconta un difficile rapporto famigliare. Da qui in poi i God Machine si aprono ad un post rock malinconico ed allo stesso tempo graffiante, come quello di “Alone” . La onirica “In Bad Dreams” si avvale di un elegante uso di pianoforte ed archi, mentre “Painless” è un brano in linea con i suoni grunge anni Novanta, che però in questa tracklist appare come la traccia più debole.
Il primo capolavoro di One last Laught In The Place Of Dying arriva con “The Devil Song”, pezzo di una poesia unica, quasi teatrale, nel quale basso e chitarra danzano insieme in un crescendo di atmosfera e di ritmo mentre la voce struggente di Robin, come in un mantra, si libra nell’allontanare il male della vita “but devil, stay away from me…” La stessa intensità può essere ritrovata in “The Hunter”, il brano più lungo dell’album e per questo vagamente prog, anche se molto più vicino alle atmosfere degli Swans: batteria ossessiva, atmosfere post punk ed un violoncello che va a riempire un’atmosfera inizialmente minimale ma che nel finale si straborda di suoni.
“The Flower Song” è l’apoteosi, cattedrale dei suoni per eccellenza, sublime ode alla libertà in chiave elettrica in cui Fernandez dimostra con il suoi giri di basso di essere il perno portante della band. Una traccia delicata che esplode in un rock ruvido e sembra non volersi spegnere, con quel coro “again and again” che ci regala un senso di infinito.
Sul finire i God Machine ci regalano uno dei pezzi simbolo degli anni Novanta, “Dead By A Roadside”, in cui come in un libro ci descrivono meglio di chiunque altro la generazione X , anime perse disegnate in modo magistrale da Robin, Jimmy e Ronald, un brano fatto di melodie di chitarra corpose, un’atmosfera decadente ed un finale straziante che esplode in urla disperate.
Come a voler smorzare i toni chiude “Sunday Song”, una canzone inaspettata, una sorta di motivetto strumentale fatto con l’organo, un intruso, una specie di scherzo, un’ultima risata in punto di morte.
Poi… Silenzio.
Lacrime.
Appendice: i Sophia – a cura di Diego Ruggeri
Dopo la morte di Jimmy, Ronald Austin abbandona la musica per dedicarsi alla fotografia mentre Robin non ha più la forza di comporre musica. Passano due anni e il chitarrista di getto scrive alcuni versi, una poesia che vi farà pesare il cuore come un mattone (I see you everywhere / but death comes so slow / when you’re waiting / when you’re waiting to be taken). C’è qualcosa di musicale in quelle parole che diventeranno il primo brano, “So Slow”, di quello che sarà il suo nuovo percorso musicale.
Ogni distorsione è stata placata, ogni urlo soffocato. Ci troviamo di fronte ad un album (Fixed Water) minimale, per lo più registrato su un quattro piste (la canzone iniziale “Is It Any Wonder”, voce e chitarra, vi caverà il fiato), che suona come una resa alla vita, un lamento sussurrato in una serata autunnale, più per se stessi che per gli altri. Robin sembra prendere distanza da tutto quello che aveva creato con i suoi compagni di un tempo. Il gruppo non ha musicisti fissi se non lui e, per quanto ci si voglia sforzare, non ci sono rimandi di nessun tipo alla formazione precedente. Un mood languido avvolge il lavoro: le slide guitar rimpiazzano feedback, ritmiche jazzate le ossessive ritmiche che ben conoscevamo.
Dopo un paio di anni il secondo lavoro a nome Sophia, (The Infinite Circle) risulta più a fuoco: la scrittura dei brani è più organica e ragionata. La tristezza è ancora il leitmotiv del gruppo e l’incedere è sempre lento e solenne. Il brano “The River Song” si staglia sopra gli altri per dinamiche e per un modo di suonare che non credevamo più di poter sentire. Quell’arpeggio, la batteria, la voce di Robin: qualcosa dei God Machine ancora si divincola nell’io tormentato dell’artista.