COSTANZA “NATTLEITE” MARSELLA
Mi perdoni il lettore se, in questa classifica, non si procederà da una sterile enumerazione razionale e qualitativamente soppesata delle migliori uscite del decennio -preferisco lasciare ad altri questa incombenza- bensì ad un ripercorrere gli ascolti che hanno avuto più significato nelle pieghe della quotidianità della sottoscritta. Sono certa che un’operazione del genere, per quanto intimistica e probabilmente ben poco prossima a quanto ci si aspetterebbe dalle pagine di una webzine, possa dischiudere un confronto maggiormente intrigante rispetto al veder scritti, nero su bianco, i consueti titoli più apprezzati. Se volessi ricondurre ad unico tema il decennio appena trascorso, e gli album di seguito tratteggiati che l’anno caratterizzato, sarebbe senza indugio l’esperienza del limite: fisico, psicologico e persino sociale.
Iniziamo dunque con ordine.
Deathspell Omega- Paracletus (2010)
Indubbiamente una delle più intense prove sulla lunga durata dei maestri francesi del black metal dissonante, nonché il primo approccio della sottoscritta con le soluzioni messe in campo non solo dai transalpini, ma dall’intero modo di intendere il metal estremo che questi ultimi hanno contribuito a forgiare. Un universo catartico ed annichilente, tratteggiato da un riffing plumbeo e da una sezione ritmica claustrofobica, avviluppantesi su di sé. Da tale paesaggio emergono visioni ieratiche e quasi liturgiche, annunciate da testi ermetici, ricchi di estratti biblici ed evangelici.
Swallow the Sun – Emerald Forest and the Blackbird (2012)
Ho sempre avuto delle grosse remore nei confronti del doom/death, perlomeno finché il divino Juha non si è palesato tra i miei ascolti. Emerald Forest and the Blackbird è stato il primo incontro con tale incarnazione del suo talento, che, negli anni caratterizzati dalla perdita di Aleah si è trasfigurato in quella sublime incarnazione nota come Hallatar prima, e nell’ambient cinereo di Lumina Aurea. Emerald Forest and the Blackbird è anch’esso, a suo modo, la storia dell’elaborazione di un lutto: un padre, al capezzale del figlio morente, tenta di addolcire il passaggio al sonno eterno narrando dell’aldilà, e del passaggio che egli compirà, come una sorta di fiaba. Suggestioni melodic doom e movenze più prettamente goticheggianti sono qui compenetrate con estremo gusto, mediante un songwriting eccezionale e difficilmente replicabile, al punto da far trovare alla tanto discussa ugola della Olzon la propria raison d’être, in una delicata e commovente ballad (Cathedral Walls) che ne valorizza appieno il tono etereo, in duetto con l’inossidabile Mikko Kotamäki.
Altar of Plagues – Teethed Glory and Injury (2013)
Questa scelta potrebbe sembrare quanto di più opinabile possa esservi, dal momento che sia per i fan che per molta della critica, tale disco non rappresenterebbe l’apice compositivo della band irlandese. Eppure, nella loro anima più elettronica ed ambient, velata di un lirismo ermetico ed a tratti gelido, questi più recenti -e, purtroppo, ultimi- Altar of Plagues hanno saputo lasciare una traccia indelebile: volessi descrivere con semplici parole ciò che Teethed Glory and Injury rappresenta per chi scrive, sarebbe quella carezza gentile con la quale ci tocchiamo, o amiamo farci sfiorare là dove il dolore è più intenso.
“What came down,
left all I was and will be,
with a tight hold, I ask for everything,
to stay near me , to stay with me,
to keep apart, to take apart.
I am not here.
I was not here.”
The Mount Fuji Doomjazz Corporation – Live At Roadburn (2013)
The Kilimanjaro Darkjazz Ensemble potrebbe suonare come un gioco di parole per chiunque non abbia familiarità con l’impresa cui il collettivo si dedica fin dal 2000: e tuttavia, basterebbe un ascolto al live album I Forsee The Dark Ahead, If I Stay per comprendere quanto la fusione tra jazz, post-rock, ambient sia quanto di più ammaliante e catartico nel panorama musicale underground. I The Mount Fuji Doomjazz Corporation non sono altro che l’incarnazione più oscura ricca di vibes doom e drone ed a più basse frequenze degli olandesi, nella quale trombone e violoncello disegnano panorami plumbei ed eclettici. La sede live – rappresentata in questo caso dal notissimo Roadburn – valorizza l’espressività e la plasticità dell’esecuzione, del tutto lasciata all’improvvisazione dei capacissimi musicisti.
Trepaneringsritualen & Sutekh Hexen – One Hundred Year Storm (2014)
Pur non avendo di certo inaugurato ex novo un filone musicale innovativo, ma essendosi limitato a raccogliere l’eredità di quel death industrial di chiara derivazione Cold Meat Industry, Martin Ekelund, in arte Trepaneringsritualen, ne ha saputo interpretare le coordinate più significative, inquadrandole in una cornice ritualistica estremamente intrigante. A ciò si unisce una presenza scenica in sede live dissacrante ed a tratti sciamanica, che rende le apparizioni del mastermind svedese un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati al genere. In questo peculiare split registrato in sede live -e distribuito ai tempi in una limitata tiratura in vinile – il Nostro divide il palco con una realtà statunitense ancor più peculiare, ovvero i Sutekh Hexen, fautori di un disturbante amalgama nel quale Raw Black Metal e noise sono compenetrati senza soluzione di continuità, con un esito tanto alienante quanto ipnotico. La registrazione in presa diretta e quanto di più low-fi possibile, rende la produzione ancor più peculiare e disturbante.
HATE & MERDA – L’Anno Dell’Odio (2014)
Chiunque abbia mai lambito i territori del doom, drone, sludge -ed altre tenebre affini- e sia particolarmente avvezzo ad aggirarsi nel sottobosco underground della penisola, non può non aver mancato l’appuntamento con l’esordio di questo duo fiorentino, e con il coacervo di progetti ruotanti nell’orbita della Dio Drone. Nessuno di noi può difatti dirsi tanto fortunato da non aver mai attraversato la propria Diamante Street, la propria personalissima via dolorosa culminante in quel vuoto esistenziale sordo, abisso senza fine, riflettente all’infinito le nostre parole ormai prive di senso. Alla stessa maniera non si può restare impassibili quando in Pietà emerge da una melanconica progressione arpeggiata, un estratto da La Notte, di Antonioni, il più prezioso:
“Se stasera ho voglia di morire, è perché non ti amo più. Sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esistere più, perché non posso più amarti”.
Wildernessking – Mystical Future (2016)
Sudafrica, Città del Capo. La cosiddetta Cascadia non è mai stata così lontana, eppure i Wildernessking raccolgono a piene mani l’eredità di nomi quali nomi quali Wolves In The Throne Room, Panopticon e Skagos, al fine di dar vita ad un’opera che amalgama le coordinate proprie del genere con una personalissima vena maggiormente antropologica. Ad essere messo a tema è difatti il limite, il crinale, tra natura e cultura, dal quale da sempre l’uomo emerge per sperimentarsi come tale. E tutto ciò viene realizzato con le movenze del black atmosferico, sapientemente immerse in paesaggi post-rock dal sapore spirituale. E che dire, infine, del meraviglioso artwork naturalistico, che fa da cornice all’edizione in vinile?
Øjne – Prima che tutto bruci (2017)
Tutto inizia con un coltello in tasca, che la maggior parte del tempo è un peso tra gli altri. Una lama che il protagonista del concept, mediante un percorso di crescita adombrato da lettere di scuse perdute e mai ritrovate, quotidiani sfogliati con ansia, fili di ragnatela, partenze per luoghi remoti e ritorni a casa, inizia progressivamente a non rivolgere più contro sé stesso. Prima che tutto bruci scorre così trai brani concepiti come atti di un’unica storia -dal finale tutto da scrivere, nel processo di decostruzione e rielaborazione della propria identità qui poeticamente tratteggiato – su un intreccio screamo e post-hardcore, concedentesi a tratti al post-rock.
“C’è una ragnatela negli angoli tra le finestre della mia stanza,
l’ho costruita io a partire dai vent’anni.
Ho intrappolato la mia vita preferita
e tutte le cose che sapevo,
rinchiuse tra nuove ambizioni
e una pressione costante”.
Selvans – Faunalia (2018)
Il più recente lavoro in studio della band nostrana dimostra, qualora ve ne fosse stato il bisogno, che anche la produzione black nostrana possa raggiungere le medesime vette di eccellenza dei colleghi nordici. E Faunalia realizza tutto ciò senza appropriarsi di stilemi estranei al tessuto culturale italiano, bensì scavando a fondo nel ricchissimo patrimonio folcloristico della penisola. Il metal estremo è dunque qui carne e sangue di un’opera che torna alla tradizione in maniera sostanziale, senza rendere tale intento un mero vuoto proclama. Passando per il lascito di nomi quali Morricone e Simonetti, sino ai testi che, mescendo italiano e dialetto abruzzese, toccano temi mitologici, storici e culturali in maniera incredibilmente evocativa e mai banale.
“Io son di remotissima stirpe di padri anacoreti
che a sangue si flagellarono masticando la neve
sbudellavano aquile, e strozzavano i lupi
una sigla incisa nei massi
con un chiodo della croce raccolto da Elena.
Ora a te consacriamo i silenzi
di una mistica letargia
con lo sguardo al sole che nasce
dalla foschia”.
Helevorn – Aamamata (2019)
Se risulta quasi superfluo ribadire come le tragedie del mare abbiano caratterizzato il decennio -tanto in virtù degli equilibri geopolitici e sociali che derivano dalle migrazioni, tanto per via dell’omnipervasività di una certa narrazione politica- non si può certo dire che il tema sia stato rappresentato con dovizia nei generi a noi più chiari. E per la delicatezza, la poeticità e la speranza con le quali gli Helevorn si confrontano con tale fastello di contraddizioni, i doomster catalani rappresentano un unicum nella scena europea. Nessuno ha osato, fino alla stesura di Nostrum Mare (Et Deixo un Pont de Mar Blava), intessere in una ballad gothic/doom le lingue dei paesi principali che si affacciano sul Mediterraneo, auspicando un ponte salvifico tra le nazioni, rivendicando la comunione tra popoli. Da accompagnare alla lettura dell’altrettanto illuminante saggio di Cristina Cattaneo, Naufraghi senza volto che, attraverso una descrizione dettagliata e chiara del processo di identificazione dei morti in mare al fine di restituir loro nomi e dignità, ne veicola storie, speranze e sentimenti, tanto universalizzabili quanto spesso aprioristicamente negati.