Un decennio fa avevo diciassette anni. Oltre al liceo, agli amici e ad altri passatempi occasionali, la musica era già presente per me. Infatti, accanto ai miei primi passi in band sgangherate e dotate di una concezione di tempo e di insieme assolutamente relativa, ci sono stati gli album: qualcosa da scoprire, da capire e da amare. Non erano molti all’epoca, giusto i classici del rock e del metal, l’hip-hop dei Cypress Hill e i primi due album dei Gorillaz. Ma iniziavano a gravitarmi intorno, a me e alle mie orecchie, alcuni nomi che avrei portato con me negli anni avvenire, un bagaglio fondamentale che ancora oggi considero sia la base della mia pur sempre limitata cultura musicale sia, e soprattutto, il punto di partenza di una stupenda ricerca che dubito potrà mai arrestarsi. Questi nomi inizialmente erano solo tre: Radiohead, Tortoise e Tool. Tre band molto diverse tra loro, ma affini nel modo di concepire il fare musica, nel cercare l’originalità a partire dal classico, nello sperimentare con i mezzi del rock guardando oltre ai linguaggi già usati. Dietro a quella scoperta, a quella montagna inesauribile di ascolti, di emozioni, brividi e meraviglia, per me c’era tutto, c’era un modo di esprimersi, di raccontarsi e di riconoscersi nella musica. Con il tempo i nomi si sono accumulati, i generi e i sottogeneri hanno iniziato a delinearsi, ma i miei ascolti preferiti sono sempre stati caratterizzati da una caratteristica comune: quella vena inquieta che non fa accontentare del già detto e sprona la creatività ad andare oltre sulla via della sperimentazione. E per questa rassegna di dieci titoli ho deciso di lasciarmi guidare proprio da questo: dalla passione che muove lo sperimentalismo e la ricerca di nuove soluzioni. quindi ho selezionato quei titoli che, secondo me, durante quest’ultimo decennio sono stati capaci di forzare i limiti dei generi musicali, di innovare dall’interno e donare qualcosa di particolare al mondo della musica.
Toundra – (II) (2010)
Si tratta della seconda pubblicazione dei Toundra, post-rock band di Madrid. (II) è ascoltabile come un viaggio, conferma che si può cercare giù nella tracklist. E, proprio come un viaggio, ha solo un inizio e una fine, certo ci sono le tappe, ma non sono punti di delimitazione di un segmento: (II) scorre come un unico brano di quaranta minuti e ventisei secondi, le cui tappe (le sette tracce) più che assomigliare a singole parti di un insieme assemblato, sono a tutti gli effetti ambienti sonori in evoluzione, momenti di un flusso che guida l’ascoltatore tra arpeggi intrecciati, riff furiosi in cui spicca tutta la solidità della sezione ritmica, momenti contemplativi e ricercate suggestioni dal gusto esotico, insomma composizioni dalla resa decisamente non comune. La musica dei Toundra è sicuramente post-rock, e la sua base canonica è riconoscibilissima, ma ai madrileni il canonico non basta, non soddisfa il carico emozionale e la voglia di ricercare un linguaggio personalissimo. I Toundra, con gusto e sperimentalismo, riescono a comunicare con l’ascoltatore, e ci riescono forzando i limiti di un genere che è nato come non-genere e come superamento dall’interno del rock.
Radiohead – The King of Limbs (2011)
Dopo tre anni dalla pubblicazione del capolavoro in due dischi In Rainbows, nel febbraio del 2011 i Radiohead firmano la loro ottava uscita con un full-length davvero singolare. Basta ascoltare il brulicare percussivo di “Bloom”, prima traccia del disco, per rendersi conto di come la band sia ogni volta in grado di riproporsi al pubblico con una veste nuova ma riconoscibile, una caratteristica del loro sound che li ha resi dei veri e propri pionieri del rock alternativo. The King of Limbs è un album che sembra recuperare l’inquietudine e le suggestioni emozionali di Kid A, ma dopo undici anni quell’angoscia di partenza sembra essersi evoluta di pari passo al progredire della società, della tecnologia e del caos (come viene comunicato dal senso di claustrofobia del brano “Feral” o dallo stupendo andamento melanconico di “Codex”). I Radiohead, oltre a primeggiare nella sperimentazione compositiva, riescono ancora una volta a porre al centro della loro espressione musicale un ritratto dell’uomo contemporaneo, e soprattutto della perturbazione che la società esercita sulla sua vita interiore: The King of Limbs contiene e sviscera tutto ciò con attenzione maniacale al dettaglio, con soluzioni sorprendenti di impressionante efficacia e impatto, come se ci restituissero a noi stessi nel modo più didascalico e spietato, ma anche e soprattutto nel modo più empatico e accogliente.
Sonic Youth – SYR 9: Simon Warner a Disparu (2011)
Sonic Youth non è certo un nome da poco, lo sappiamo: sin dalla loro iniziale militanza all’interno del movimento artistico No Wave la loro discografia si è imposta, album dopo album, nella scena underground mondiale con l’autorità di un vero e proprio manuale del noise rock e del rock sperimentale, mentre il loro approccio alla musica, a partire dal modo di controllare la strumentazione fino alla costruzione di strumenti a corde non convenzionali, li ha resi delle leggende della musica contemporanea. SYR 9: Simon Warner a Disparu è una pubblicazione minore: l’ultimo capitolo della SYR Series, ossia i nove LP ultra-sperimentali pubblicati indipendentemente dall’etichetta fondata dalla stessa band (la SYR, Sonic Youth Recordings). Ma cos’è SYR 9: Simon Warner a Disparu? Ufficialmente la colonna sonora dell’omonimo film del regista francese Fabrice Gobert. Ma ovviamente è anche molto di più: è un monumento allo sperimentalismo musicale, è l’ultima pubblicazione di una band che ha amato l’improvvisazione e l’assenza di regole compositive sin dagli esordi, è un campionario di emozioni umane (angoscia, tensione, estasi, gioia, inquietudine e orrore), è una piccola e forse poco nota pietra miliare della musica alternativa, un ibrido di noise rock, post rock e ambient-drone, che non dovrebbe mancare nella collezione di ogni cultore dello sperimentalismo. Quello che ascolterete (ovviamente è consigliatissimo farlo) è del tutto imprevedibile: le tracce si susseguono come ritratti situazionali, come ambienti sonori in movimento attraverso atmosfere tese di rumore e percussioni effettate, con la riproposizione ossessiva dello stesso tema, quando identico quando ripreso con variazioni, tra aperture e addensamenti di tensione, dissonanze e armonie, fischi lancinanti e tutta la maestria che i Sonic Youth sanno imprimere anche alle improvvisazioni registrate in presa diretta. In sostanza, SYR 9: Simon Warner a Disparu è il biglietto d’addio (o sperado di arrivederci) di una delle più innovatrici e influenti band dell’ultimo quarantennio, una magistrale lezione di non convenzionalità applicata alla musica.
Bologna Violenta – Uno Bianca (2014)
Uno Bianca è la quarta pubblicazione di Bologna Violenta, un progetto inizialmente solista di Nicola Manzan (dal 2015 in collaborazione con il batterista Alessandro Vagoni). Si tratta di un gran concept album che mette in musica, e che musica, una pagina nera della storia contemporanea italiana: la storia della banda della Uno Bianca formata dai fratelli Savi, i rapinatori senza scrupolo di uccidere che hanno gettato nel terrore il centro Italia dal 1987 al 1994. Musicalmente Uno Bianca non trova eguali fuori dalla discografia di Bologna Violenta. Nicola Manzan riesce a unire e armonizzare tra loro essenze musicali provenienti da mondi tra loro quasi avulsi: il noise, il math, il metal più estremo e convulso, l’elettronica, l’industrial e la musica classica si incontrano sapientemente per dare vita e far pulsare un album ruvidissimo, ultra-violento, disturbante e meraviglioso. Un ibrido terrificante e traumatizzante che raggiunge il suo apice emotivo e concettuale con l’esecuzione live, il supporto dei visual atterrisce l’ascoltatore ponendolo in modo crudo e diretto davanti alla brutalità e alla violenza della serie di tragedie connesse al nome dei Savi.
Neat Beats – Sleep Cycles (2015)
Un album interamente elettronico di stampo downtempo, trip hop, chillwave, dalle atmosfere oniriche, distese e meditative, ma non per questo privo di una spiccata componente sperimentale. Sleep Cycles, come suggerisce il nome, è un album concettualmente basato sul ciclo onirico del sonno: è composto da tracce brevi, descrivibili come suggestioni sonore strutturate da loop di alta ricercatezza e gusto. È un insieme di frammenti musicali che si susseguono in modo apparentemente casuale, ma in realtà dominati da una costante armonia di fondo e dalla vincente intuizione del background onirico. Si tratta anche in questo caso di un viaggio surreale, un’alternanza di campioni eccellentemente manipolati ed assemblati per far sprofondare l’ascoltatore in un confortevole mondo da sogno, nel quale non mancheranno di affiorare tutte le sensazioni connesse al desiderio e la ricerca di equilibrio e armonia.
David Bowie – Blackstar (2016)
Ultimo capolavoro del Duca, pubblicato l’8 gennaio del 2016 in coincidenza del suo sessantanovesimo compleanno e a soli due giorni dal suo decesso. Blackstar è un album che si nutre sia del passato di Bowie sia più contemporanee influenze del panorama rock e pop: una sorta di ponte tra il passato glorioso dell’artista e un futuro che, probabilmente, sentiva del tutto irrealizzabile. Un testamento musicale e spirituale dunque, l’ultima voce prima della scomparsa, l’ultimo capolavoro di una carriera letteralmente stellare. David Bowie può non piacere, può risultare difficile all’ascolto o addirittura eccessivamente semplice, ma è innegabile che il suo eclettismo non si è certo mai nascosto durante la sua intera carriera (basterà solo considerare l’influenza della Trilogia Berlinese sulla musica contemporanea per averne una conferma). E per Blackstar tutto ciò vale forse anche maggiormente: ascoltare anche solo i due singoli estratti dall’album (“Blackstar” e “Lazarus”) basta a confermare sia l’elevato grado compositivo raggiunto da Bowie alla fine dei suoi giorni sia l’attenzione e la grandezza del suo personalissimo modo di vedere e fare musica, sia una prova di come la musica sia forse la più potente e completa forma del linguaggio umano. Tra i dieci album che hanno caratterizzato questo decennio un posto d’onore va sicuramente riservato a Blackstar di David Bowie, all’estremo addio di una divinità della storia della musica.
Do Make Say Think – Stubborn Persistent Illusions (2017)
Incantevole, sorprendente, emozionante, magnifico, perfetto, sono tutti aggettivi calzanti ma allo stesso tempo incapaci di rendere l’essenza di questo album. Ascoltatelo, immergetevi con attenzione in questo full length, per favore, fatelo, anche solo per curiosità: vi accorgerete di essere difronte a qualcosa di unico. È post-rock, ma non allo stadio di cristallizzazione che questo genere aveva raggiunto già nel 2010: Stubborn Persistent Illusions del post-rock ha soltanto l’idea di superamento, la componente strumentale e gli strumenti canonici, per il resto, e fortunatamente, non è inquadrabile in un genere. Le soluzioni adottate dai Do Make Say Think in questo album sono impareggiabili, complesse, dettagliate, perfette nella ricerca del suono e nell’esecuzione, ma soprattutto vive e vibranti. Non è facile rendere a parole ciò che Stubborn Persistent Illusions contiene senza sproloquiare in elogi posticci e inadatti al suo impatto emotivo, non lo è, perciò il miglior modo per capire quanto genio si trovi al suo interno è semplicemente quello di ascoltarlo a lungo e, ripetizione dopo ripetizione, lasciarsi stupire.
Suffocate for Fuck Sake – In My Blood (2017)
Difficilmente ho ascoltato un album che restituisse con tanta attenzione ai dettagli e tanta completezza compositiva la disperazione, il senso di impotenza e il dolore che In My Blood contiene. Difficilmente ho trovato che un concept potesse sposarsi alla musica come in questo caso: l’album tematizza musicalmente il documentario Förädlade Svenskar di Bosse Lindquist, ossia il reportage di un tragicissimo evento della storia svedese, una serie di esperimenti di eugenetica volti alla sterilizzazione e conseguente eliminazione della classe povera durante gli anni ’70. Sconcertante il punto di partenza, meraviglioso l’esito sonoro. In My Blood, con un calibratissimo miscuglio di screamo, post-rock e black metal (ma in realtà c’è molto altro ancora, a partire dall’attenzione al dettaglio nella scelta e l’impiego di campioni audio e la costruzione dei layering) regala all’ascoltatore una varietà di suggestioni capace di paralizzare e commuovere allo stesso tempo. Un album violento, disperato, angosciante e magnifico.
Arto – Fantasma (2018)
L’uscita di questo album è arrivata all’improvviso, i nomi dei musicisti che lo hanno firmato erano noti e apprezzati, il risultato finale eccellente come d’altronde l’esecuzione live dei brani che lo compongono. “Cinematico” è forse l’aggettivo che più è stato usato per definire il sound di Fantasma, e non certo a torto, i brani di matrice post-rock sono sicuramente di notevole impatto e capaci di trasportare l’ascoltatore in paesaggi allucinati ansiogeni e convulsi, ma il maggior pregio di questo lavoro è senza dubbio la ricerca della novità. Fantasma è assolutamente innovativo: il drumming è un marchio di fabbrica e un forte segno d’identità, l’esecuzione del basso e le soluzioni delle chitarre stupiscono per efficacia, originalità e potenza suggestiva, l’insieme è calcolato quasi con maniacalità in ogni incastro e sovrapposizione. In altre parole, un disco che per composizione e impatto giunge quasi alle soglie della perfezione. Sarà sicuramente una scoperta sensazionale per chiunque ancora non ha avuto modo di lasciarsi impressionare dall’album di debutto degli Arto.
Nine Inch Nails – Bad Witch (2018)
Per concludere questa rassegna dedichiamo un posto speciale all’ultimo album dei Nine Inch Nails, Bad Witch. Un album che testimonia l’eccellente stato di salute di Trent Reznor e compagni, ma soprattutto del loro sound leggendario. I NIN, come molti altri in questa rassegna, non hanno certo bisogno di presentazioni, e la loro influenza nella musica contemporanea è nota e apprezzata. Con Bad Witch ci troviamo nuovamente di fronte ad un’eccellente pubblicazione: un disco aggressivo, rumoroso e eccellente nella resa sonora, che presenta al suo interno sia i tratti più personali della carriera dei NIN, come le chitarre distorte al limite del rumore bianco che ronzano sopra una sezione ritmica serrata e travolgente accompagnando la voce virulenta e i testi affilati di Reznor (elementi che ricordano i migliori momenti di capolavori come The Downward Spiral With Teeth), sia tratti innovativi e indicatori della connaturata vena sperimentale della band come il magistrale accostamento di elettronica percussiva e fiati malinconici, gli andamenti drum and bass (che ricordano le claustrofobie del primo Aphex Twin) a sostegno di atmosfere alienanti e disturbanti, oppure la discesa finale in un drone-ambient ossessivo e oscuro. Insomma, un album che merita assolutamente un posto in questa rassegna, diverso rispetto ai precedenti, ma a loro quasi complementare. Una brillantissima dimostrazione di come il talento dei NIN sia inesauribile.