Ecco che, dopo un anno, torniamo a parlare dell’eclettico duo Thecodontion, di cui avevamo già scritto in occasione del precedente Jurassic. Caratteristica peculiare della band è la prerogativa dell’assenza di chitarre nella propria concezione musicale, con trame sonore incentrate sull’utilizzo del solo basso e delle “fisse” in materia di concept. Ci si perdonerà l’utilizzo di un termine visivamente offensivo, non gratificante e nemmeno lusinghiero; la volontà dello scrivente esula dal voler spadroneggiare con parole arroganti sul contenuto offertoci. A ben vedere, tuttavia, sebbene tali le tematiche possano presentare un qualsivoglia filo conduttore, il passaggio dalla descrizione di rettili preistorici del periodo Giurassico a quella delle varie fasi delle terre emerse in termini di supercontinenti, rischia di trasmettere un’affezione volubile e passeggera ai soggetti trattati. I Nostri hanno comunque lavorato al nuovo Supercontinent con l’intenzione di rinnovarsi e di apportare degli effettivi cambiamenti, che però non siamo sicuri della misura in cui possano risultare efficaci. Dovessimo quindi riassumere il contenuto della produzione che ci accingiamo a trattare, e darvi un motivo per non dovervi sorbire parole e parole, useremmo tale formula: capiamo cosa si volesse ottenere, peccato che non lo si sia ottenuto.
Segue argomentazione per chi volesse approfondire:
NB: Per comprendere maggiormente le argomentazioni che seguono, si rimanda comunque a quanto già detto per il precedente Jurassic.
L’assunto precedentemente enunciato, in virtù del quale si capisce cosa la band volesse ottenere, è immediatamente corroborato dall’ascolto. In Supercontinent troviamo difatti strutture abbastanza classiche, addirittura alle volte stantie per quanto siano state usate in passato. I giri di basso, le pause e i bridge, sono quanto di più vi sia di già sentito in un tipo di death alle volte primordiale. Ed il termine primordiale non deve essere inteso non tanto nella sua accezione cronologica, bensì più nel senso di basilare. Il problema principale della produzione risiede, come in passato, principalmente nel modo in cui viene concepito il suono del basso. Tale uso dello strumento risulta sicuramente innovativo ma, come già si diceva precedentemente, se si vuole usare solo il basso come strumento l’equalizzazione risulta fondamentale, e qui si è continuato a voler mantenere un suono secco, senza corposità e alla lunga esasperatamente scheletrico. Non sarebbe stato ovviamente lecito pretendere un muro sonoro di piena saturazione – che comunque non guasta mai – ma uno scarno simile è davvero esasperante e fuorviante. Gli inserti di basso solista sono indubbiamente l’elemento che spicca in misura maggiore (dopo la virata più death della composizione), ma anche qui la registrazione ostacola la riuscita dell’amalgama, ed a questo punto si capisce che la sottesa volontà è altra rispetto a chi scrive. Le comparsate soliste che sovrastano in volume il tutto, con un’equalizzazione di nuovo scioccante (qui quasi a voler scimmiottare una chitarra, quindi alti, riverbero e modulazioni del caso) alle volte fanno più male che piacere, nonostante rappresentino effettivamente una certa novità nel genere – non il basso che scimmiotta la chitarra in sé, quella è storia vecchia. La batteria, se stavolta risulta più comprensibile, pecca in compenso di varietà: e va bene, vanno bene i diktat di sorta, ma certe soluzioni elementari stimolano più vergogna strumentale che altro (la conclusiva e quasi scolastica “Panthalassa” ne è l’esempio migliore, nonostante i nostalgici vibes gothic anni ‘80/’90). La voce tenta in compenso di imitare quella sorta di growl acido un po’ datato, così come anche i vocalizzi ripercorrono abbondantemente svariati canoni.
Una nota di gusto invece la riscontriamo nell’unica traccia, di quattro, strumentale davvero azzeccata, ovvero “Tethys”, e qui risulta ben chiaro per chi scrive che le capacità esistono, si palesano, ma vengono evidentemente massacrate da un’idea da portare avanti. Altra nota positiva è l’innesto della chitarra baritona che fa capolino in “Laurasia-Gondwana”, che fortunatamente spezza un po’ il ciclo di noia perenne. Estremamente apprezzabile in compenso il lavoro dietro i testi, effettivamente ben realizzati ed evidentemente frutto di appassionati, anche se un po’ di lirismo meno scientifico ed esasperatamente riassuntivo avrebbe giovato.
Tiriamo quindi le somme. Qui si tratta di cercare di capire a cosa dare la precedenza. I ragazzi dietro Thecodontion hanno sicuramente mostrato di aver avuto un’idea precisa sul da farsi, questo poiché i suoni, le ritmiche, i vocalizzi risultano perfettamente quadrati in un insieme che appare molto chiaro. Vogliamo chiamarlo war metal? Ammesso che abbia senso possiamo indirizzarci in quella direzione. La pecca che chi scrive ha notato è invece la capacità di dare forma al pensiero, il concretizzarsi con mezzi non adeguati e forse non ragionati perfettamente. I suoni potevano essere molto più godibili evitando l’effetto noia, si poteva usare più fantasia qua e là nell’architettura dei pezzi. Le capacità, inutile dirlo, ci sono, basta davvero poco in più dal lato tempo e tecnico per trasformare questa idea in qualcosa di più, che entri quindi nel ramo dell’accettabile. La sperimentazione sì c’è, idee nuove ci sono ma anche qui le carte sono state giocate male, anche perché non basta una buona idea (per quanto possa risultare facile e magari anche banale) per essere definiti sperimentali. La volontà però va premiata, non siamo a degli esami e dati i margini si può solo sperare nella risoluzione in meglio per un prodotto in potenziale ma con scarso applicativo. Dopotutto stando a una leggenda anche a Dio servirono molti tentativi per capire come cuocerci alla perfezione.
NB: Sarà nostra impressione, ma il “For fans of” fornito è un po’ troppo fantasioso.
(I, Voidhanger Records, Repose Records, 2020)
1. Gyrosia
2. Vaalbara
3. Ur
4. Kenorland
5. Lerova
6. Nuna
7. Rodinia
8. Tethys
9. Laurasi-Gondwana
10. Pangaea
11. Panthalassa