Se qualcuno mi chiedesse quale sia la nazione più importante per il post-rock di oggi, non esiterei a rispondere: la Polonia. Non è solo una questione di numeri, anche se il panorama polacco è sorprendentemente ricco – con band come Distant Dream, Yenisei, Transmission Zero o Beyond The Event Horizon, per citarne alcune tra le mie preferite, che hanno saputo ritagliarsi uno spazio importante. La vera forza sta nell’identità: ognuna di queste band riesce a reinterpretare i canoni del genere con una sensibilità unica, trasformando il post-rock polacco in qualcosa di riconoscibile, eppure sempre vario e profondamente stimolante. Tra queste, i Tides From Nebula sono tra quelli che mi hanno sempre colpito di più, oltre ad essere i più noti. Si sono formati a Varsavia nel 2008 e, in dieci anni che li ascolto, album dopo album, non hanno mai smesso di sorprendermi: dai paesaggi sonori di Aura, sospesi tra etereo e cosmico, alle strutture più complesse e audaci di From Voodoo To Zen, la loro musica ha il dono raro di trasportare altrove, grazie ad un equilibrio perfetto tra post-rock, ambient e un pizzico di progressive, mai ostentato, sempre funzionale alla narrazione sonora. E poi c’è quel senso di libertà che li ha sempre contraddistinti, quella volontà di piegare le regole del genere per esplorare qualcosa di nuovo, mantenendo però intatta l’essenza di ciò che li rende speciali da più di vent’anni. E dunque dopo cinque anni di silenzio discografico, i Tides From Nebula sono tornati con questo Instant Rewards, il loro primo album completamente autoprodotto. Registrato nel loro Nebula Studio e pubblicato sotto la loro etichetta Nebula Records, si tratta di un lavoro che segna un ritorno all’urgenza creativa degli esordi, arricchito dall’esperienza accumulata lungo il loro percorso; il disco, lo diciamo da subito, riesce ad ampliare ulteriormente i confini del loro sound, avventurandosi più che mai in territori prettamente cinematografici, dai tratti fantascientifici e sintetici, senza mai perdere quel legame profondo con le emozioni che li ha resi una delle band più affascinanti della scena post-rock internazionale.
L’apertura affidata a “Burned To The Ground” non lascia spazio a esitazioni: il brano mescola riff possenti e tremoli riverberati a texture elettroniche che si intrecciano in un crescendo davvero mozzafiato. Il build-up finale è di quelli che non si dimenticano, con una potenza che esplode lasciando un senso di meraviglia; vera e propria dichiarazione d’intenti per il tono dell’intero disco. Subito dopo, “The Great Survey” ci trasporta in territori più rarefatti, costruendo un’atmosfera eterea a partire da una singola nota ripetuta; la melodia principale, dapprima delicata e pulita, evolve gradualmente in una versione più satura, fino a dissolversi in tremoli riverberati che evocano un senso di vastità spaziale, come se ci si perdesse negli eoni del cosmo. Nel bellissimo bridge, una melodia completamente diversa emerge come un’eco distante, arricchita da archi e tremoli lontani che conferiscono al pezzo un’aura quasi mistica e senza tempo: quella velata sensazione di pericolo iniziale trova un nuovo sbocco emotivo che parla di grandiosità e libertà in egual misura. Con “Rhino”, il ritmo cambia drasticamente: percussioni tribali, riff saturi e potenti e un basso massiccio sorreggono un brano che pulsa di un’energia quasi primordiale; i fraseggi di chitarra si alternano tra oscurità e aperture luminose che puntano verso l’alto, trasmettendo un irresistibile senso di euforia. Questa traccia, che mi ha fatto pensare molto agli sleepmakeswaves, ha un’energia davvero cinematografica: sembra descrivere la marcia di un esercito attraverso paesaggi maestosi e inesplorati con una progressione che culmina in una sezione squisitamente travolgente. Ascoltandola in cuffia, mentre si è in mezzo alla gente, sembra quasi di vivere un film epico in cui si è il protagonista. È una traccia che trasmette una carica pazzesca e che, per quanto mi riguarda, si candida a essere uno dei momenti più alti dell’album, sia musicalmente che per la quantità di emozioni che mi ha fatto provare. Anche “Fearflood”, già pubblicata come singolo, si distingue con i suoi sintetizzatori retrowave che contribuiscono a creare un’atmosfera da videogame: l’atmosfera qua mi ricorda qualcosa a metà tra la colonna sonora di No Man’s Sky dei 65daysofstatic e il proficuo catalogo dei tedeschi Collapse Under The Empire. È un brano molto dinamico e roboante, in cui le chitarre si intrecciano perfettamente agli effetti elettronici sottostanti, dando vita ad un crescendo di grande impatto. La chiusura, d’altro canto, risulta invece molto più intima: una sola chitarra pulita emerge con un fraseggio essenziale e delicato, e il riverbero in cui è immersa la melodia sembra quasi contrastare la natura esplosiva di ciò che l’ha preceduta. Devo dire che mi ha trasmesso un lieve velo di malinconia sospesa, come se descrivesse una quiete che sembra fragile e temporanea. La transizione verso “Flora” è fluidissima; qui un’intro dai tratti fantascientifici cede il passo ad una sezione calda e analogica: fraseggi che ricordano Steven Wilson si mescolano ad una chitarra lontanissima che dipinge paesaggi sonori ampi e stratificati. C’è un momento particolarmente emozionante in cui una chitarra acustica e una elettrica pulita si intrecciano, creando un passaggio tanto semplice quanto toccante. La parte centrale del disco trova il suo culmine in “The Haunting”, altro brano magnifico in cui il drumming incalzante e i riff adrenalinici si dissolvono in una sezione contemplativa, evocando un senso di vastità spaziale che rassicura e stupisce al tempo stesso. Con “Ashes (reprise)”, i post-rocker polacchi riprendono i temi del brano di apertura, “Burned To The Ground”, aggiungendo però dei dettagli eterei come sintetizzatori delicati e campanellini in delay, per poi guidarci verso le ultime fasi dell’album: “In The Blood” si distingue per il suo inizio misterioso, con drum-machine e sintetizzatori che avvolgono le chitarre in una tensione crescente. Le chitarre, inizialmente lontane, emergono in un crescendo che richiama l’alternative rock spaziale degli Angels & Airwaves, con una punta di progressive che arricchisce ulteriormente la dinamica, fino a esplodere in una sezione luminosa e ariosa, più in linea con le atmosfere di Safehaven, uno dei miei dischi preferiti dei Nostri. Infine, “The Sweetest Way To Die” chiude il cerchio con una perfetta combinazione di caldi sintetizzatori e un lavoro chitarristico notevole: è una chiusura elegante che offre un senso di compiutezza.
Con Instant Rewards, i Tides From Nebula dimostrano che la libertà creativa può essere la più grande alleata di una band già affermata. L’autoproduzione non solo ha reso il sound più autentico, ma ha permesso loro di esplorare nuovi territori sonori senza perdere di vista le radici post-rock che li contraddistinguono. Questo equilibrio tra riconoscibilità e innovazione è forse il più grande punto di forza dell’album: da una parte, troviamo tutto ciò che gli appassionati del genere amano – riff epici, atmosfere sognanti e momenti di pura catarsi emotiva – dall’altra, l’uso sapiente di elementi elettronici e una sorta di maestosità cinematografica ingrandiscono il sound, mai così trionfale e imponente, eppure disseminato di soluzioni melodiche che privilegiano l’intimità e la natura universale di certe emozioni. Instant Rewards è dunque un ascolto che non stanca, un viaggio fluido e coeso che sa coinvolgere senza mai risultare ridondante in tutti i suoi 52 minuti di durata. Ogni brano si incastra perfettamente nel quadro d’insieme, come indispensabili tasselli di un mosaico futuristico; l’universo sonoro tratteggiato dai polacchi è perciò tanto familiare quanto moderno. Per quel che mi riguarda, uno dei dischi post-rock più belli dell’anno.
(Autoproduzione, Nebula Records, 2024)
1. Burned To The Ground
2. The Great Survey
3. Rhino
4. Fearflood
5. Flora
6. The Haunting
7. Ashes (reprise)
8. In The Blood
9. The Sweetest Way To Die8.0