La Spagna calcistica ha vinto i recenti campionati europei e lo ha fatto giocando sempre bene, battendo nazionali storicamente forti come Italia, Germania, Francia e Inghilterra. Il caso vuole che tra le mani abbia il nuovo album dei Totengott, trio che arriva proprio dalla Spagna – una terra che ha dato poco al mondo musicale che tanto amiamo – e la proposta artistica abbraccia un pò tutto lo scibile del metal europeo. Pur non inventando nulla di nuovo i Nostri scrivono sette canzoni che, partendo dalle lezioni di band come Venom, Celtic Frost, Voivod (Eric Forrest è un ospite gradito, il suo basso si sente parecchio), risultano convincenti e appaganti. Perché sì, ok la poetica dell’arte, della bellezza, ecc ecc, però ecco, si dovrebbe anche semplicemente goderne senza troppe seghe mentali. La formazione è classica, chitarra, basso, batteria, voce principale e cori, tastiere a fare da contorno e spesso da collante, e la produzione riesce nel difficile compito di risultare retrò e al contempo moderna. Nessun distacco quindi tra i vari strumenti, tutto suona coeso, sullo stesso livello, nonostante vampate sulfuree che escono impunemente da ogni singolo brano.
Le danze si aprono con “Inner Flame” che mette subito le cose in chiaro: il metal si suona così. Duro, crudo, sparato a mille. Con la successiva “Sons Of The Serpent” le atmosfere si fanno più cadenzate, è un doom che flirta con il death, le voci si sovrappongono, un salmo che lentamente accompagna l’ascoltatore in una discesa negli inferi più caldi e neri che ci siano. Nonostante abbia letto pareri negativi riguardo ai precedenti dischi, che ammetto di non aver ascoltato, il mio pensiero si fa sempre più positivo man mano che le tracce si susseguono. Prendiamo la terza, “Marrow Of The Soul”, che superficialmente pare sia semplice, banale, derivativa, ma che invece sa piazzare piccoli particolari, tipo l’assolo di chitarra ma anche i vari stop and go che ne alzano il livello e ci si ritrova, senza accorgersene, a battere il piede, corna al cielo, e via a staccarsi la testa a colpi di headbanging (per chi ancora ce la fa, ouch). L’evocativa, e ancor più doomy, “The Architect” conferma quanto appena scritto: la band capitanata da José Enrique Saavedra è maestra nell’articolare il proprio sound attraverso spire concentriche, tutto l’album quindi appare come un unico flusso atto a soffocarci lentamente, togliendo aria, luce e speranza secondo dopo secondo. Il brano è un Caronte moderno che ci conduce ai due pezzi successivi, una title-track divisa in due movimenti, dove le peculiarità fin qui elencate trovano il loro massimo splendore esplodendo in un’epifania da brividi lungo la schiena. Si arriva così in fondo al disco, la cui chiusura è affidata ai tredici minuti di “The Golden Crest”, forse un pò troppo lunga, visto che sostanzialmente non aggiunge nulla a quanto già ascoltato (se non alcuni passaggi orrorifici smaccatamente Nile).
In definitiva io non sono d’accordo con le critiche sparse sul web, trovo che Beyond the Veil sia un buon disco heavy metal, che regala bei momenti, qualche chicca, insomma: con questa arsura non è da tutti risultare gradevole quando ci si lascia andare a vergognose, per la nostra età, sessioni di air guitar. Ora, scusatemi, ho da attaccare col riff di “Inner Flame”.
(Hammerheart Records, 2024)
1. Inner Flame
2. Sons Of The Serpent
3. Marrow Of The Soul
4. The Architect
5. Beyond The Veil Part I: Mirrors Of Doom
6. Beyond The Veil Part II: Necromancer
7. The Golden Crest (The Ritual, The Curse, The Path, The Light)