Dalla furia creativa che ha mosso Jon Davis, frontman, chitarrista e voce dei leggendari Conan, nasce, con rinnovata irruenza, Ungraven, un progetto solista che vuole essere un omaggio collocato tra i fumi industriali della Birmingham degli anni ’90. Facendo riferimento alle sonorità ed alle ispirazioni di band che dei ritmi ossessivi e dei riff impietosi hanno fatto i loro pilastri fondanti, come Godflesh, Fudge Tunnel e Nailbomb per citarne alcune, il risultato è un mix asfissiante tra sludge ed industrial metal che non accetta compromessi, il cui unico intento è l’assalto totale ai timpani dell’ascoltatore, il quale non può che rimanere inerme ed allucinato dalle esalazioni tossiche dei riff, nonché da ogni altro elemento di Language of Longing, disponibile dal 1° marzo in digitale, tape ed in formati CD. Album di debutto del progetto, schiaccia ogni accenno di melodia sotto una tonnellata di scarti industriali ferrosi e non retrocedendo neanche per un attimo, rientrando, per certi versi, nel gusto del migliore blackened sludge, segmento indubbiamente limitrofo a quanto proposto.
Ciò che inevitabilmente viene colto già dai primi momenti di esecuzione è il riffwriting tipico dei Conan che – per ovvi motivi – è riproposto, seppur stavolta sotto un’ottica molto diversa, mantenendo comunque le caratteristiche pregevoli e distintive del power trio sludge doom inglese. Prima fra tutte la ritualità ridondante dei riff, che vuole proporre uno stato di trance profonda, risiedente a metà tra un rito tribale ed una fabbrica in cui macchinari pesanti scandiscono incessantemente lo scorrere rarefatto del tempo. La voce è un elemento fondamentale, che anche in questo contesto risulta graffiante e cantilenante una nenia ossessiva, statica, alla soglia del monotonale, e proprio in queste sue caratteristiche le vocals trovano grande spessore artistico, sebbene per cogliere la loro ragion d’essere bisogna quantomeno interiorizzare quanto abbia ispirato quest’ultima creazione di Jon Davis, dagli stessi Conan, al post-hardcore, fino all’industrial.
A partire dai suoni Ungraven non si dimostra esclusivamente una (one man) band sludge metal, contaminandosi, ma solo come ispirazione, con una cospicua dose di opprimente e feroce black metal in un mix di elementi familiari, che ricombinati brillantemente fra loro risultano in qualcosa di nuovo e, fin da subito, interessante. La produzione si evince sia stata elaborata partendo dai soliti altissimi standard per cui abbiamo conosciuto lo Skyhammer Studio (e dintorni). Nonostante ciò in Language of Longing uno dei pochi aspetti che sarebbe potuto essere curato diversamente risiede nel mix, in particolare in una chitarra troppo prominente nel registro medio, che per tutto l’album non riesce ad inserirsi comodamente nel mix, risultando alla soglia dello “zanzaroso” e costantemente troppo sopra gli altri elementi.
Forse ciò è da imputare a una scelta artistica in favore del dominio tirannico di un registro di chitarra sul resto del mix, magari per un un esperimento sonoro ancora troppo acerbo, volendo far differire eccessivamente quanto proposto da Ungraven rispetto alle band che portano il suono inconfondibile del rinomato Skyhammer Studios; in ogni caso, questa controversia sonora può comunque essere mandata facilmente in prescrizione data la natura di debutto.
Nelle intenzioni e nel mood di Language of Longing prevale la più moderna tra le tendenze di contaminazione, suggerendo all’ascoltatore il macro-genere in cui risiede il progetto, ma allo stesso tempo slegandolo da un labeling ben preciso, caratteristica non solo vicina al panorama estremo inglese odierno (e non), ed in particolare alla cerchia di band che gravitano attorno allo Skyhammer Studio e Black Bow Records.
In “Impale Lore”, se ancora dopo la prima traccia fosse rimasto anche un briciolo di dubbio, viene ribadito il concetto secondo il quale è stata scritta la batteria, che si propone come cuore marciante dell’EP, dalle suggestioni tribali, minimale e strettamente straight-to-the-point, come solo la mente di Jon avrebbe potuto concepire. Anche da questo elemento si può dedurre quanto fosse estremamente chiaro l’obiettivo del musicista inglese, in cui sicuramente l’essenzialismo rituale e la mancanza assoluta di orpelli sono le chiavi di volta, rimarcando un esperienza musicale navigata ed un gusto che sa unire diverse fonti (apparentemente distinte e separate tra loro) sotto il vessillo della totale annichilazione sonica.
La scelta di usare una batteria campionata, derivato da un plugin, sicuramente non è da intendere come un piano B, bensì trova la propria ragion d’essere in una motivazione artistica ben precisa, ragionata, di assoluto gusto e pertinenza. Nonostante la natura “sampled” della batteria non sia effettivamente palese fin dalla prima traccia, complice anche l’ottima stesura della stessa e la qualità dello strumento utilizzato, più avanti (“Aggro Master”) lo strumento svela in parte i suoi artefici, aprendo il brano con dei blast beat di stampo death metal chirurgicamente precisi ma comunque entro la soglia del godibile, senza cadere in un mero MIDI copy-paste. Questa brutalità, precisione ed al tempo stesso impietosa apatia dell’esecuzione di una macchina programmata, calzano a pennello con il contenuto di Language of Longing, costituendone anzi una caratteristica degna di nota, che dona un valore aggiunto all’opera.
Una critica costruttiva che si potrebbe muovere nei confronti dell’album è scatenata dai nemmeno 30 minuti di esecuzione totale della release che, seppur permettano ai brani ed alle intenzioni di esprimersi nella loro totalità, probabilmente sono meno di quanto si sarebbe sperato da un opera partorita dalla mente di Jon Davis, facendo rientrare la release a pieno titolo nel territorio dell’EP. Ci sono parecchie probabilità che il fruitore di Language of Longing sia arrivato all’ascolto del suddetto tramite Conan o più genericamente tramite il panorama doom o sludge inglese, che di certo non lesina in quanto a minutaggio per album.
Ciò ribadisce che questa release offre dei contenuti diversi rispetto a quanto esposto canonicamente dallo scenario a cui è vicina. Non volendo comunque scontentare nemmeno l’ascoltatore affezionato al suddetto segmento, la traccia di chiusura “Targetted” offre più di dieci minuti (sbilanciando totalmente il minutaggio medio per traccia dell’album) di assedio sonico downtempo dominato da un riff rituale, che non rinuncia al groove e che conduce ad una trance profonda in cui la voce si assenta, lasciando spazio alle suggestioni primitive ma distopiche che tormentano l’ascolto per tutta la durata dell’album ed in particolare di questo brano.
Il punto focale di Language of Longing si manifesta con la risolutezza di chi ha ben in mente il proprio obiettivo artistico, che in questo caso è la demolizione melodica e canonica di un concetto musicale il cui assalto è iniziato nel panorama sludge metal tra gli anni ’90 e 2000. Oggi assume una forma che in parte si distacca dal suddetto frangente, ma dall’altra ne esalta gli stilemi, ribattendo brillantemente sui leitmotiv del genere, nei riff ipnotici, punitivi ed asfissianti, nei ritmi tribali di una civiltà distopica e nelle suggestioni venefiche, che forniranno la propria dovuta dose di veleno sia all’ascoltatore più affine al frangente – anche blackened – sludge, sia all’utente estraneo (o novizio), ma che nel mood di Ungraven troverà un crocevia tra i mondi, in cui convergono la furia e le ossessioni di un panorama che, contaminandosi come dimostrato in questo EP, potrebbe generare una sequela di successivi prodotti che porterebbero a nuovi altissimi apici di annichilazione sonora ai quali non si potrebbe che tenere le porte, e le orecchie, aperte.
Extra: Gli artwork in pixel-art sviluppati per la band da parte di Alan O’Neill rispecchiano pienamente il carattere del disco, proponendo uno stile visivo nuovo ed assolutamente interessante. Traccia preferita: “Targetted”.
(Black Bow Records, 2019)
1. Blackened Gates Of Eternity
2. Impale Lore
3. Aggro Master
4. Deep Rest
5. Onward She Rides To A Certain Death
6. Targetted