È abbastanza recente il fenomeno di realizzare due album “gemelli”, con sonorità totalmente differenti, quasi si trattasse di due band diverse. Gli americani Uniform si uniscono alla nutrita lista uscendo con Nightmare City, il fratello strumentale ed elettronico (tastiere, synth, lap steel, pianoforte) di quel capolavoro di American Standard (già recensito su queste pagine). Se quest’ultimo poggiava la sua grandezza su canzoni nervose, colme di dolore da raccontare – non solo i disturbi alimentari cronici del leader Michael Berdan ma anche di una generazione completamente allo sbando – tenendo sempre alta e costante la tensione grazie anche all’utilizzo di due batterie, Nightmare City prende le distanze da quell’inferno in musica, portandoci lontani anni luce, in altre galassie.
Ma la bravura degli Uniform sta proprio nel suscitare ugualmente emozioni forti, contrastanti, destabilizzanti, parlando una lingua diversa, a tratti difficile da comprendere ma che, una volta assimilata, si intuisce essere la voce dell’anima. Perché la bellezza nella musica sta tutta qui: entrare piano in ognuno di noi e devastare tutto quanto. Questo disco, che condivide la stessa struttura col precedente (numero di tracce, quattro, ma un minutaggio leggermente più snello), non avendo la voce disperata di Berdan a declamare tutto il suo dolore, lascia a noi che ascoltiamo, nota dopo nota, campo libero per gettare sul tavolo incubi, sogni, speranze, delusioni, ossa rotte e occasioni sprecate. Durante l’ascolto si viene rapiti, trasportati in altre dimensioni, con esperienze sensoriali che ci fanno assaggiare qualcosa che non c’è, che forse potrebbe venirci in soccorso, che probabilmente non vedremo mai, perché il tempo è tiranno e corre senza aspettare nessuno.
Canzoni che fanno dell’apparente semplicità il loro biglietto da visita. Ma bastano poche sessioni di ascolto per notare le strutture dei brani, che vogliono soltanto apparire minimaliste – anche per i molti, che se gli togli un distorsore alla sei corde, sembra di trovarsi al cospetto di un messia sceso in terra – ma che sono fitte di dettagli, anche minuscoli, che vanno a incrociarsi, incastrarsi, costituendo un’esperienza di ascolto quasi formativa. Il titolo dell’album è sintomatico. Ma mai come oggi, chiudere gli occhi e sperare di sognare mostri, rappresenta il più dolce degli incubi.
(Sacred Bones Records, 2024)
1. American Standard (Nightmare City Mix)
2. This Is Not A Prayer (Nightmare City Mix)
3. Clemency (Nightmare City Mix)
4. Permanent Embrace (Nightmare City Mix)