VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
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UNA BATTAGLIA DOPO L’ALTRA di Paul Thomas Anderson (2025)
Liberamente ispirato al romanzo di Vineland di Thomas Pynchon (1990) il nuovo film di Paul Thomas Anderson (da qui PTA) dimostra più che mai come sia uno dei registi più postmoderni che ci siano in circolazione. Una Battaglia dopo L’altra è l’ennesimo film di PTA che riesce in modo lucido e preciso ad essere un affresco degli Stati Uniti di oggi e non solo. L’ho visto in sala e con me il pubblico era abbastanza trasversale, da gruppi di giovani a adulti con figli, uniti in silenzio da questa storia di quasi tre ore che sembrano una. Esattamente come i miei vicini di poltrona il film è di quelli trasversali che diverte e intrattiene nella sua semplice storia di superficie ma che è innegabilmente impregnato di politica e significati che lo innalzano molto più in alto con tutta una serie di riflessioni mai banali e soprattutto mai stucchevoli. È molto facile essere stucchevoli parlando di certi argomenti eppure PTA riesce a non esserlo mai nonostante le riflessioni siano ovunque. Dai personaggi, ai piccoli dialoghi ai nomi delle vie inquadrate tutto parla della nostra contemporaneità nel modo più giusto possibile. È un po’ difficile parlare della trama, un po’ per via dei molti personaggi e situazioni, un po’ per gli argomenti che nella loro totalità sono molto più della traccia di base che possiamo riassumere. Diciamo che c’è una coppia di un gruppo rivoluzionaro che a ha una figlia e a causa di questo finiranno per separarsi. Leonardo di Caprio, il lui della coppia, è un padre che a un certo punto della propria vita dovrà fare i conti con il proprio passato per aiutare la propria figlia a salvarsi da qualcuno che la sta cercando, che detta così può sembrare un Taken qualsiasi ma siamo davvero lontanissimi da quel tipo di film. Oltre ai significati più politici e contemporanei il film riesce in qualche modo a parlare anche di generazioni, di come si fallisca continuamente ma si provi comunque a provare a cambiare le cose, che se non saremo noi saranno le generazioni successive a cui passare il testimone con la speranza di aver cambiato il mondo anche solo un pochino anche se, forse, non è così. È una storia sia di speranza che di rassegnazione a seconda di come vogliamo vedere il mondo. Aldilà dei significati, che per me fanno il film, non si può non lodare anche solo la sua realizzazione tecnica con una regia e un ritmo fuori dal comune e una pletora di attori tutti bravissimi e una scena di inseguimento in auto verso il finale da storia del cinema. Una battaglia dopo l’Altra è uno di quei film che sulla carta non dovrebbe essere consigliato a chiunque, un po’ per la sua durata e un po’ per gli argomenti trattati, ma fa parte di quei film di PTA che dovrebbero essere visti da tutti, anche solo per godere di un cinema grande e di un autore tra i migliori che possiate vedere in questa vita. fatevi un favore e guardatelo e w la rivoluzione, sempre.
recensione di Carmelo Garraffo
DEMON SLAYER : IL CASTELLO DELL’INFINITO di Haruo Sotozaki (2025)
Come siete messi ad Anime voi che leggete queste pagine? Ci ho pensato un po’ prima di decidere se scrivere o meno di questo film ma poi ho pensato che ormai i manga, gli anime e tutto questo mondo è talmente sdoganato che sicuramente ha un sacco di fan anche da chi ascolta musica con le chitarre grosse, senza contare che per chi frequenta le fiere del fumetto non è raro tra le tipiche faccia stereotipate ritrovare maglie di band estreme insospettabili (stiamo colonizzano il mondo? speriamo!). Comunque sia eccomi qui a dire la mia sul film fenomeno anime del momento che a quanto ne so ha incassato come nessun film animato abbia mai fatto nella storia. Per prima cosa vorrei inquadrare il tipo di progetto, che non è così scontato per via della tipologia di film poco conosciuta dalle nostre parti. Si tende solitamente a pensare allo studio Ghibli e a quel tipo di storie che fruibili autonomamente. Non siamo da quelle parti. In Giappone succede spesso, sopratutto negli ultimi anni, che una serie animata sia inframmezzata dei film che vanno a incastrarsi in una narrazione più ampia, quindi diretti a un pubblico che già conosce il prodotto e che ha già seguito in altre forme “la storia fino a quel momento”. Questo ultimo film di Demon Slayer va a incastrarsi in quel filone lì, come è già successo col film precedente e come succederà con il film di prossima uscita di Chainsaw Man (guardate la prima stagione su Netflix). È quindi complicato parlare della trama a qualcuno che non segue la serie ne abbia mai letto il manga da cui è tratta. Per riassumere possiamo dire che nelle puntate precedenti i nostri protagonisti si sono incontrati e uniti grazie a una mirabolante serie di estenuanti eventi che li hanno portati fino al castello dell’infinito del titolo dove risiede il mega cattivo finale della storia in corso che non finirà con i titoli di coda perché il progetto sarà formato da tre film che porteranno alla conclusione di tutto quanto. Complicato? Si, forse, se non siete fruitori della materia ma non troppo se amate Demon Slayer. Detto questo siamo di fronte alla tipica struttura che questa storia ci ha abituato in passato, ovvero dei combattimenti inframmezzati da flashback che approfondiscono le ragioni e la storia dietro ai personaggi che ci ritroveremo a seguire. Se non siete degli amanti di questa struttura non troverete novità di sorta ma va detto che se siete interessati alla visione di questo film anime do’ per scontato che per voi non sia un problema. Al di là di tutte queste precisazioni posso dire che da amante del genere questo film lascia a bocca aperta per quanto riguarda la sua realizzazione tecnica. Forse per la prima volta la CGI che spesso è integrata in questo tipo di animazione moderna aiuta davvero ad alzare il livello dell’animazione che è da spacca mascella per un prodotto commerciale di questo tipo. Non si può dire che non sia davvero spettacolare visto su uno schermo grosso e che ogni fan del genere dovrebbe perlomeno dargli un occhio anche solo per questo per capire dove l’animazione si stia spingendo. Per i fan è uno spettacolo per gli occhi da non lasciarsi scappare assolutamente. Io, che sono un appassionato che conosce la serie senza essersi mai strappato i capelli ne sono rimasto ammaliato.
recensione di Carmelo Garraffo
VENGEANCE IS MINE di Shôhei Imamura (1979)
Sarò franco con voi, cari amici lettori, questo mese è stato molto difficile trovare film di cui valesse la pena parlare tra quelli che sono riuscito a vedere. Un sacco di piccoli film deludenti che mi hanno fatto arrivare alla fine del mese con la bocca più asciutta del normale. Colgo quindi l’occasione per fare un recupero, un vecchio recupero, di un classico davvero poco conosciuto e che meriterebbe di essere visto da molte più persone. Io l’ho scoperto su YouTube, o meglio su un canale YouTube che seguo dove vengono intervistati un sacco di registi interessanti e moltissimi di loro hanno citato questo film giapponese del 1979 a me fino a quel momento sconosciuto dicendone meraviglie. Di che cosa stiamo parlando? E perché molti registi lo hanno citato? È presto detto, Vengance is Mine è un solido thriller giapponese che racconta la storia di un serial killer dal suo punto di vista. Tratto da un libro che a sua volta si ispirava ad un vero Serial Killer nipponico che ha avuto un grosso impatto sul giappone. Ci troviamo davanti a un film dal ritmo particolare fatto di flashback e side story che si intrecciano fino a descrivere un affresco molto ben scritto dei personaggi e del giappone di quel periodo. Non è esente da qualche difetto e causa di alcuni momenti in cui sembra perdersi ma è innegabile che riesca sempre a tirare le fila e che le due ore e venti passino senza troppi problemi. Il finale è strano, per me non proprio super soddisfacente ma di sicuro particolare. Insomma, è davvero un classico che rivisto oggi ha ancora una certa forza lasciando intendere i motivi per cui molti addetti ai lavori lo considerano un capolavoro. Se siete dei curiosi del cinema è un recupero da fare, se siete amanti del classici made in Giappone è un recupero obbligatorio.
recensione di Carmelo Garraffo
ALPHA di Julia Ducournau (2025)
Con il notevole successo di Raw e la vittoria a Cannes con Titane, Julia Ducournau ha dimostrato in modo incontestabile una cosa al pubblico di queste kermesse: i bei film possono benissimo fare casino, essere offensivi, violenti e ripugnanti. Con le sue provocazioni ha sicuramente saputo catturare l’attenzione e farsi un nome. Ora, con Alpha, il suo terzo, attesissimo lavoro, sceglie di intraprendere un percorso inesplorato. Perché se Titane era una questione di estremi, di spingersi oltre i confini, Alpha è un dramma relativamente intimo e addomesticato. C’è un virus dilagante che è un’allegoria della paura dell’AIDS, particolarmente rilevante tra gli anni ’80 e ’90, un virus soprannominato “vento rosso” che provoca una lenta calcificazione della pelle fino a diventare bianca e durissima per poi sbriciolarsi (c’è una scena di “schiena ricoperta di lesioni calcificanti mentre viene raschiata dai detriti” che non dimenticherò tanto facilmente). In mezzo ci infila un melodramma familiare, un coming of age e altro ancora in un unico pacchetto un po’ troppo imbottito di idee e una storia che si snoda in due linee temporali i cui eventi a volte sembrano incompatibili, confusi e non immediatamente decifrabili. Ducournau rompe gli schemi e gioca con il tempo, la memoria e i sogni per creare un nuovo murale astratto che unisce le ferite, letteralmente e metaforicamente, del passato, del presente e dei possibili futuri. È una presentazione visivamente forte, spesso ricca di prosa poetica e immagini vivide che si concentrano sulla natura del reale. Al netto della struttura narrativa emblematica e all’interessante ambientazione, però, Alpha lotta per mantenere la presa sul pubblico con continue ripetizioni dei suoi concetti che mettono alla prova la pazienza. Le singole scene sono girate molto bene, con immagini che bruciano nella retina tra imponenti primi piani e scenari apocalittici, musica ed effetti sonori abrasivi che ruggiscono nelle orecchie; tutto questo però soddisfa solo moderatamente e non convince davvero. Il film sceglie un percorso più sottile rispetto ai suoi predecessori e cerca i suoi punti di forza a livello emozionale mettendo in scena momenti emotivamente forti, permettendo al pubblico di sperimentare la miseria e lo stress dei personaggi principali. In mezzo, però, la trama arranca e ognuna delle sottotrame non riesce mai davvero a svilupparsi oltre la configurazione iniziale seguendo tempistiche strane che prosciugano il climax piuttosto che montare un lento accumulo verso il finale. La metafora dell’AIDS attraverso il sangue versato, gli aghi condivisi e il risveglio sessuale, poteva essere ben più profonda ed emotivamente risonante, magari con un legame più diretto alla pandemia di Covid-19, invece, la sceneggiatura presenta ogni arco parallelamente e senza mezzi termini, coadiuvata certamente dall’atmosfera e dallo stile oppressivi, lasciando però il pubblico in difficoltà nel collegare i punti mentre la narrazione inizia ad appesantirsi. Si intravedono ovunque barlumi della regista che ha saputo scioccare Cannes, ma questa volta la sua visione ne esce troppo annacquata. Julia Ducournau rimane una voce singolare e impavida nel cinema contemporaneo, ma Alpha è il primo vero sgambetto della sua carriera. È concettualmente audace ma drasticamente inerte, il che è sconfortante considerato quanto si affanni a comunicare l’opposto.
recensione di Emiliano Zambon
LA VALLE DEI SORRISI di Paolo Strippoli (2025)
La religione con l’horror va giustamente a braccetto, considerando la sua sordida influenza nel tempo, nelle nostre vite, nelle credenze popolari. Nella cultura italiana, il cattolicesimo è intessuto nella storia delle persone e dei luoghi in un modo che pochi altri paesi possono “vantare”, e proprio questo legame è parte del conflitto al centro dell’ultimo film di Paolo Strippoli. La domanda è: sarà riuscito a proporre una storia originale, senza i soliti omaggi né scuse nel panorama desolante dell’horror made in Italy, e più in generale all’interno di un sottogenere già affollato? A differenza di A Classic Horror Story, qui Strippoli sceglie di non nascondersi troppo dietro a modelli e citazioni ma fa una cosa sua, adottando un approccio a fuoco lento che è più focalizzato sulla stratificazione di una storia sull’accettazione del dolore e del ruolo che la fede svolge nel processo, più che su shock e jump scare (anche se ce n’è uno spettacolare). Questo non significa che lesini su certi ingredienti più mainstream ma è essenzialmente un lavoro metodico che impiega il suo tempo a sviluppare un senso del luogo e dei personaggi che lo abitano, portando i suoi riferimenti con orgoglio ma sottilmente. C’è qualche rigidità nella parte centrale e nei tempi con cui arriva finalmente a sparare le cartucce migliori (l’accumulo è utile in termini di world building tuttavia poteva essere più efficiente), ma una volta che le cose iniziano a girare, quello che fino a quel momento era un esame calmo e quasi benevolo del culto religioso vira verso una clamorosa ondata di violenza e follia. Il terzo atto è a mani basse una delle cose migliori viste quest’anno, qualcosa che va oltre le previsioni nei modi più strani e inaspettati. Bravo Strippoli, bravo il cast. Mi levo il cappello di fronte al primo vero (folk) horror italiano moderno.
recensione di Emiliano Zambon
RIDDLE OF FIRE di Weston Razooli (2023)
In una calma giornata estiva nel Wyoming rurale, una banda di ragazzini si riunisce per rubare un console per videogiochi da un magazzino locale. Tornati a casa, scoprono che la madre, costretta a letto dall’influenza, ha messo una password al televisore. Accetta di sbloccarlo per due ore, a condizione che i bambini corrano fino alla panetteria a recuperare una torta di mirtilli. I tre inforcano i motorini e raggiungono il posto, solo per scoprire che anche la proprietaria è rimasta a casa. Dovranno prepararsi la torta da soli e nel processo calarsi in una stramba avventura magica, tra alleati e nemici inaspettati. Prendendo le mosse dai capisaldi del genere come The Goonies e Stand By Me ma mescolati a una sana dose di Dungeons & Dragons, il debutto di Weston Razooli celebra l’immaginazione e le possibilità che esistono nell’infanzia, quando qualcosa di semplice come una commissione per un genitore è elevata a status di epica quest. Impostato nel mondo contemporaneo ma con un’estetica in 16mm onirica, iper-satura e vintage che combinata alla colonna sonora folksy crea un senso di astrazione, di un mondo fuori dal tempo. I bambini potranno essere appassionati di videogiochi e sapranno utilizzare abilmente lo smartphone, ma sono anche disorganizzati, spregiudicati e sboccati, come in una versione più dolce dell’infanzia che abita i film di Harmony Korine. C’è un ritorno al tipo di film che esistevano prima dell’avvento della tecnologia, quando i bambini avrebbero pedalato verso l’ignoto inventando mondi e avventure per tenersi occupati, ma Razooli non sembra interessato a predicare che la tecnologia sia una cosa intrinsecamente malvagia. Il gruppo sembra anzi trovare un felice equilibrio tra le avventure all’aperto e la venerazione per i videogiochi. Indubbiamente il viaggio funziona principalmente grazie ai più simpatico gruppo di ragazzini degli ultimi anni (con buona pace di It) e un valido cast di contorno. Nelle sue quasi due ore, Riddle of Fire risulta forse un po’ troppo lungo e non è difficile immaginare una versione più concisa, più incisiva, più energica, ma questo è un piccolo neo a fronte di un debutto di buon auspicio per Razooli (che ha scritto, diretto, montato e anche interpretato una parte nel film), un regista che ha chiaramente l’ambizione, l’immaginazione e il cuore al posto giusto, e questa dolce ma storta fiaba è la boccata d’aria fresca che ci voleva in quest’era di IP e adattamenti senza fine.
recensione di Emiliano Zambon