VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa nuova rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
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STRANGE DARLING (2023) di J.T. Mollner
Strange Darling è uno slasher abbastanza particolare se lo si guarda con un occhio più attento. A prima vista è il classico horror di caccia e fuga con un tocco autoriale nella sua estetica (la fotografia è curata dall’attore Giovanni Ribisi) e nelle sue intenzioni dove già nei primi secondi capeggia l’enorme scritta “girato in 35mm” che sta un po’ a indicare che state per vedere qualcosa di un livello superiore, o almeno è quello che vogliono farvi credere. La verità sta nel mezzo o, perlomeno, la discussione non sta tanto nell’estetica, buona, ma nei contenuti che il film furbamente suggerisce. Difficile non fare spoiler ma penso possa essere utile indicare sommariamente in cosa consiste la vera discussione intorno al film in modo da averla ben chiara se decideste di guardarlo così da farvi un opinione personale. Il film nella sua caccia di gatto col topo gioca metaforicamente con i generi, o per meglio dire con i rapporti di potere trai generi, non certo cinematografici ovviamente ma intesi tra uomo e donna. Cos’è il consenso? cosa non lo è? quando la vittima è sempre vittima? chi lo è davvero in determinate circostanze? Quanto è difficile scrivere questa recensione senza fare spoiler? Sta di fatto che in sceneggiatura alle volte si forza la mano e la sensazione è che il regista non lo faccia per portare realmente a casa la propria tesi sull’argomento ma più che altro per creare discussione e dare fastidio sottolineando questioni in modo un po’ scorretto solo per far parlare del proprio film. Il che è un po’ un peccato perché al di fuori di polemica il film è ben fatto e sono sicuro si poteva portare a casa senza usare certi trucchetti. A me certe questioni hanno innervosito parecchio mentre ad altri per nulla. Voi da che parte state?
recensione di Carmelo Garraffo
DOSTOEVSKIJ (2024) di Damiano e Fabio D’Innocenzo
Se vi dicessi che in Italia siamo riusciti a fare una serie televisiva di genere thriller (uscita su SKY) di buona fattura? e se vi dicessi che i registi che l’hanno realizzata sono quelli di Favolacce? Lo dico subito a scanso di equivoci: non sono un fan dei fratelli D’Innocenzo e del loro cinema ma quando un prodotto è ben fatto, sopratutto se arriva da casa nostra, è giusto che venga spinto e sottolineato. Dostoevskij è la serie che non ti aspetti su un detective alla ricerca di un serial killer. A raccontarne l’incipit si potrebbe pensare a un idea abbastanza banale per il genere. Abbiamo un poliziotto/detective stanco e disilluso per vicissitudini personali alla ricerca di un serial killer che lascia sulle scene del crimine delle lettere/poesie scritte in modo abbastanza criptico. All’inizio quello che colpisce è che il vero genere di riferimento non è tanto il thriller inteso, per semplificare, alla True Detective ma il Noir, genere fatto di fumo, di nero, di personaggi che parlano costantemente in modo artificioso, di botte e risposte che nella vita reale non sentiresti mai. È una cosa che potrebbe stranire alcuni ma che in realtà funziona e affonda le sue radici in codici narrativi ben precisi. Quello che la serie riesce a fare bene è, piano piano, andare a parare dove non ti aspetti perché se è vero che all’inizio si può pensare ad un “ben fatta ma la storia è un po’ banale e stereotipata” (io l’ho pensato) piano piano scardina le classiche regole fino al finale. È una serie cupa, nerissima, che non lascia nemmeno un spiraglio di positività e dove l’aria è pesante per tutti, sia per chi ci vive dentro sia per chi la guarda da fuori. Se siete appassionati del genere il consiglio è di recuperarla, anche se le serie italiane solitamente vi scoraggiano.
recensione di Carmelo Garraffo
PROJECT SILENCE (2023) di Taegon Kim
Cosa c’è di meglio di un bel comfort movie Coreano? Ovviamente i “miei” comfort movies non sono di certo le commedie romantiche e leggere che ti fanno capire quanto la vita sia meravigliosa anche perché, lo sappiamo, la vita è questione di sopravvivenza, e a proposito di sopravvivenza il film di questo mese è un survival di stampo coreano, un bel Blockbuster corale su un gruppo di sconosciuti che rimane bloccato su un lungo ponte a causa di un incidente insieme a una manciata di cani geneticamente modificati che non hanno proprio le migliori delle intenzioni. La trama vi sembra assurda? Sta qui il divertimento! Rispetto ad altri esponenti di questo genere il film in questione, lo dico subito, non è un capolavoro a causa del suo livello di originalità non proprio altissimo, almeno per quanto riguarda le dinamiche. Abbiamo tutta una serie di personaggi abbastanza standard per questo tipo di produzione: il protagonista padre di famiglia ligio al dovere con la figlia piccola da proteggere, la coppia di amiche di cui una sportiva giocatrice di golf, il simpatico giovane benzinaio dai capelli lunghi che si accompagna a un cagnolino minuscolo, la coppia di anziani e il misterioso scienziato che sa e non sa. Ma anche se basta un secondo per capire i personaggi e altri cinque per prevedere dove la storia andrà a parare va detto che il film lavora bene, non annoia mai, diverte, intrattiene e ti porta alla fine contento. Come dicevo, un comfort movie. Il film è dell’anno scorso ma è uscito da pochissimo da noi a noleggio su Amazon Prime Video, che è una cosa buona visto che difficilmente nel nostro paese queste cose vengono distribuite.
recensione di Carmelo Garraffo
ODDITY (2024) di Damian Mc Carthy
Ora che siamo arrivati alla fine del 2024 se pensiamo ai migliori horror dell’anno ci vengono sicuramente in mente due film. Il primo è Longlegs e il secondo è The Substance, ma c’è un terzo film che molti non hanno visto che se la gioca in quanto a sorpresa e qualità. Oddity è film inglese sicuramente più piccolo e meno pubblicizzato degli altri che abbiamo nominato ma ha diverse frecce al suo arco. Potrei definirlo una ghost story da camera. Lo dico perché è ovviamente una ghost story di quelle che ormai non se ne vedono poi molte, con cose che si muovono nell’ombra, rumori, cigolii e tensione legate ad essi. Da camera perché a conti fatto il film si svolge prevalentemente all’interno di un singolo spazio. Gestisce molto bene la tensione e se devo fargli un appunto la sensazione è che il materiale a disposizione sia stato leggermente stiracchiato per arrivare alla durata che il film ha. Succedono cose ma il rirmo lento dell’inizio, che si presta molto bene al genere e a far davvero paura grazie all’accumulo sottile, dopo un po’ non funziona più come dovrebbe e un leggerissimo cambio di ritmo (poco, nessuno si aspettava un action) avrebbe giovato al film che se si fosse accontentato degli 85 min invece che dei 98 ne avrebbe solo che guadagnato. Nonostante questo rimane un film godibilissimo che riesce nei suoi momenti migliori a spaventare davvero con il suo incedere molto particolare. È un piccolo film dal sapore antico nel senso più positivo del termine e se vi capita a tiro buttateci un occhio perché sarebbe è un peccato perderselo.
recensione di Carmelo Garraffo
BATTLE ROYALE (2000) di Kinji Fukasaku
Che cos’è un capolavoro? Sicuramente, oltre al valore, è qualcosa che è arrivato prima di tutti e che da lì in poi ha segnato una linea da cui si è proseguito. Questa linea può anche essere una divisione tra quello che è venuto prima e quello che è venuto dopo perché è innegabile che dopo l’uscita del film di cui stiamo per parlare molte cose sono cambiate. Il film che ho scelto per i recuperi di questo mese è Battle Royale che, insomma, è qualcosa che credo abbiano visto quasi tutti, quindi più che un recupero è una buona occasione di riscoperta, per riparlarne ancora visto che male non fa, e se per caso siete fra quelli che ancora non lo hanno visto o che non ne hanno mai sentito parlare andate a recuperarlo prima di subito, mentre per tutto gli altri, come il sottoscritto, solo a pensarci non vi viene voglia di riguardarlo? La trama del film è semplice: in un Giappone in un tempo non precisato la popolazione adulta ha perso la sua autorità con una criminalità minorile in crescita preoccupante per tutto il paese. La soluzione? Estrarre a sorte una classe di studenti una volta all’anno, senza che loro lo sappiano, isolarli su un isola e lasciare che si ammazzino tra loro. L’ultimo che rimane vince il ritorno a casa. Il film, alla sua uscita, ci mette pochissimo a diventare un cult valicando i confini del paese e arrivando sotto gli occhi di una marea di appassionati del cinema di genere e non solo. Ovviamente la sua fama non crebbe grazie ad un uscita capillare nelle sale del mondo ma tramite internet, il passaparola, il consiglio, e via dicendo, andando a creare di fatto un nuovo genere cinematografico con un sacco di imitatori e rendendo il termine “Battle Royale” usatissimo anche da chi non sa il film cosa sia. Avete presente i videogiochi competitivi di genere “Battle Royale”? arrivano da qui. La saga di Hunger Games? dite grazie a Battle Royale. Squid Game? Avete capito. Per dirne un altra, Quentin Tarantino si innamora così tanto del film di Fukasaku che quando deve girare Kill Bill ne ruba letteralmente un personaggio. Go Go Yubari è infatti la copia carbone del personaggio di Takako Chigusa di Battle Royale, arma compresa e attrice compresa! Ma potrei andare avanti moltissimo a parlare di Battle Royale e di come ha influenzato una lista infinita di cose sia nel cinema che fuori dal cinema. Il film, per chi non lo sapesse, è tratto dal romanzo di Koushun Takami dall’omonimo titolo che se siete appassionati del film vi consiglio di recuperare (non fatevi scoraggiare dalle dimensioni, scorre che è una meraviglia). Cosa curiosa, oltre al film esiste anche una versione Manga della stessa storia che si muove in parallelo rispetto agli altri media con il nostro Takami sempre alla scrittura che si diverte a modificare dettagli, ampliare personaggi e a modificarne leggermente il finale in modo da creare tre versioni della stessa storia che siano allo stesso tempo uguali ma abbastanza diverse da essere viste e lette tutte quante. Interessante, no? Insomma, Battle Royale è un capolavoro per un sacco di motivi e alla fine, dopo tante parole, fate che ve lo andate a guardare e riguardare perché dopo ventiquattro anni (il film è del 2000) è ancora e per sempre storia del cinema. E in tutto questo non vi ho neanche detto che Takeshi Kitano, che è nel film, interpreta se stesso. W Battle Royale.
recensione di Carmelo Garraffo
SMILE 2 (2024) di Parker Finn
Si apre con un piano sequenza di 10 minuti che da solo vale tutto il primo film, una spinta propulsiva che mette subito in chiaro che non sarà affatto un more of the same. Le immagini super nitide, persino sterili, come fossimo intrappolati in un reparto psichiatrico mettono il pubblico in uno stato onirico, offuscando il confine tra la realtà e i trucchi dell’entità (demone?) un po’ come A Nightmare on Elm Street confondeva i sogni con il mondo reale, e ti accompagna attraverso lunghi pezzi di trama solo per scoprire che era tutto un’illusione, un gioco mentale, abbattendo così ogni potenziale scappatoia o luogo sicuro. Smile 2 è un trionfo. Smussa tutto ciò che non andava nel primo film e migliora tutto ciò che funzionava; introduce una nuova interessante prospettiva e non toglie mai il piede dall’acceleratore. Supera senza sforzo l’originale, mantiene forte la presa sul commento sociale e brucia con un’intensità che non diminuisce finché non viene dato alle fiamme tutto ciò che si vede.
recensione di Emiliano Zambon
KRAZY HOUSE (2024) di Flip van der Kuil e Steffen Haars
Si apre con un set up molto intrigante, modellato sulla sitcom da famiglia middle class fine anni ‘80, primi anni ‘90. Interpretato da uno sprecatissimo Nick Frost e una Alicia Silverstone in gran spolvero, il patriarca timorato è al centro di questa sgangherata dinamica dedicata al mantenimento dei valori cristiani tradizionali mentre la famiglia si sgretola. La premessa sembrerebbe evocare roba come Family Matters, in cui malintesi familiari all’acqua di rose si risolvevano con lezioni di vita strappalacrime, ma con il cinismo caustico di Married With Children. Sulla carta, la distruzione dei cliché americani mescolati a satira politica nel momento in cui un gruppo di russi ostili irrompe in casa funzionerebbe, se solo il risultato non fosse così drammaticamente scarso. Ti aspetti che lo scontro di valori cristiani con il caos provocato dai russi si traduca in qualcosa di forte, non certo in una bulimia di gag confuse e deludenti che si trascinano senza farcela. È come se i registi avessero infilato tutte le idee più provocatorie che sono riusciti a partorire in questo mix, sperando che almeno una avrebbe attecchito. Ma invece di elaborare una narrazione coerente e davvero provocatoria, finiscono con un prodotto disordinato e mezzo crudo. Vorrebbe prendere in giro l’ipocrisia dei fanatici religiosi, il mondo sterilizzato e artificiale delle sitcom e l’assurdità delle paure da Guerra Fredda, ma la satira richiede più di qualche idea irriverente; serve intelligenza, arguzia e, soprattutto, un fine. Senza questi, serve solo a provocare senza una vera analisi di ciò che rappresenta in un contesto culturale o storico, che è esattamente ciò che accade in questo film. C’è un problema intrinseco quando i cineasti tentano di provocare solo per il gusto di farlo: il pubblico si annoia. Invece di spingere lo spettatore a riflettere o a sfidare le norme sociali, sembra di guardare un adolescente brufoloso che cerca di infastidire sparando battute offensive a raffica senza alcuna reale comprensione del perché certe battute potrebbero risultare problematiche. E nel finale, qualsiasi parvenza di significato o coerenza narrativa finisce in pasto al caos assoluto. Simboli un tanto al chilo, personaggi che agiscono a caso, la violenza che si consuma senza alcuno scopo reale. Un film stupido, che non riesce a impegnarsi a qualsiasi livello significativo. Se cercate una satira brillante o una decostruzione intelligente dei tropi della sitcom, non è questa.
recensione di Emiliano Zambon
HERETIC (2024) di Scott Beck e Bryan Woods
Per essere un film con tre personaggi, un unico set e una marea di dialoghi astratti su fede, credo, religione e controllo, Heretic mantiene senza alcuno sforzo alta la tensione per buona parte della sua giusta durata. Il vero terrore qui deriva dal confronto delle credenze. Il Mr. Reed di Hugh Grant è il santo patrono delle razionalizzazioni urlate di oggi: mezze verità e vaghe generalizzazioni snocciolate come rivelazioni assolute. Ogni argomento segue passaggi logici e chiari, anche quando i fatti da cui prendono le mosse sono dubbi, e la recitazione rende le parole carne. Hugh Grant si sta chiaramente divertendo un mondo nel suo periodo villain. Da Cloud Atlas a Paddington 2 a Dungeons and Dragons, l’ex icona delle commedie romantiche da il meglio di sé quando interpreta i cattivi; sia che citi Voltaire o Spider-Man, tracciando una linea tra Gesù bambino e La Minaccia Fantasma, imitando Jar Jar Binks o intonando Creep dei Radiohead, sta sempre lì a fissarti con il suo sorriso sornione e l’occhietto scintillante. Per un’ora buona, Heretic è un film di conversazioni. Conversazioni divertenti, inquietanti, rivelatrici e stimolanti. Un gioco a tre in cui tutto il cast fa un ottimo lavoro con il materiale a disposizione. La sola cosa a trattenerlo dal successo completo, purtroppo, è il finale, in cui alcune grandi rivelazioni non stupiscono come dovrebbero dopo tanto, certosino, accumulo. Un atto finale ricco di colpi di scena, la cui natura estremamente derivativa tuttavia non è necessariamente il problema, ma la frenesia con cui si susseguono e si allacciano mette davvero a dura prova la sospensione dell’incredulità. Tutto sommato però il film di Beck e Woods è così divertente e così coinvolgente che anche se la destinazione non è all’altezza del viaggio, non è il problema più grande del mondo. Anche se la logica narrativa si fa confusa, la conclusione trova comunque modi soddisfacenti per piazzare qualche gag ben centrata e una bella conclusione della parabola dei personaggi, introducendo persino in ultime battute nuove rughe negli argomenti religiosi sia a favore che contro. Discussioni che continueranno sicuramente dopo la conclusione del film. Persone con convinzioni e background completamente differenti vedranno questo film e si porteranno via cose diverse; alcune troveranno i loro punti di vista messi alla prova, altre potrebbero trovarli rafforzati. Sia le protagoniste che l’antagonista pensano di avere le risposte giuste sulla natura di Dio, ma alla fine Heretic non intende fornirvi alcuna soluzione. Cerca di provocare e di intrattenere. In questo, è un successo.
recensione di Emiliano Zambon
SPEAK NO EVIL (2024) di James Watkins
Esiste la mascolinità tossica anche in Danimarca? Pongo questa domanda senza senso di cui conosco già la risposta perché il regista danese Christian Tafdrup in qualche modo è riuscito a realizzare quello che considero un piccolo capolavoro con la sua versione del 2022 di Speak No Evil, senza ricorrere a quello che è ormai a tutti gli effetti il leitmotiv della nostra epoca. Il remake del 2024 di James Watkins, tuttavia, decide di seguire percorsi di routine, pagando il prezzo di risultare un film molto meno interessante. Non ho nulla contro la mascolinità tossica che si prende mille torte in faccia, sia chiaro, accade marginalmente anche nel film di Tafdrup, ma era solo una componente di un’opera che accusava tutta la cultura occidentale di un illecito morale dalla testa ai piedi, una furiosa accusa di compiacenza della classe media. La versione originale mi ha ricablato il cervello, quella di Watkins, pur contenendo sicuramente molte piccole delizie cinematografiche, non si avvicina nemmeno a un’impresa del genere. Non è male, ma niente che non abbiamo visto un milione di volte dai tempi di Straw Dogs nel 1971. Ad esempio, nel film del 2022 è il padre a prendere la fatidica decisione che cambierà per sempre il corso della loro vita, scavalcando completamente la moglie. Il film di Tafdrup rende estremamente chiaro che questo però è dovuto alla sua attrazione repressa per un altro uomo. La tensione sessuale tra i due è giocata fino in fondo, e diventa essenzialmente la storia della repressione di un padre che condanna la sua famiglia. Secondo Tafdrup è l’omofobia interiorizzata il vero villan; le sabbie mobili che alla fine divorano tutti. Ma nel remake è la moglie a scegliere di partire, perché si sente in colpa per avere recentemente tradito (tramite messaggio!) il marito. Una lezione che diventa semplicemente quella dell’auto-miglioramento eteronormativo. E Ben, il marito, qui è semplicemente un uomo debole che ha bisogno di imparare a essere forte. Entrambe le versioni colpiscono duro sulla nostra capacità di auto-condannarci non parlando quando ne avremmo bisogno a causa dell’avvilente costrizione a mostrarci sempre educati, ma trovo che le certezze morali di questa svolta anglicizzata siano una sorta di fregatura, una che ci priva dell’affondante miserabilità fatalistica dell’originale che ho trovato così dannatamente inquietante.
recensione di Emiliano Zambon
IN THE MOUTH OF MADNESS (1994) di John Carpenter
“La religione cerca la disciplina attraverso la paura ma non comprende la vera natura della creazione. Nessuno ci ha mai creduto abbastanza da renderlo reale.” – Sutter Cane
Secondo queste parole, ciò che è reale sta negli occhi di chi guarda. In quest’era di fan service, in cui interi film vengono accantonati o ristrutturati in base alle opinioni o alle reazioni eccessive dei fan, la realtà stessa viene manomessa. La posizione morale di un personaggio immaginario, viene presa come la posizione morale di un autore in carne e ossa o di uno studio. C’è una fusione tra l’opera e la realtà in cui opera (eh). La storia non è più una storia agli occhi dei seguaci, ma una fusione della realtà stessa in un elemento fantastico. In the Mouth of Madness dimostra che non esiste una realtà se non quella che creiamo per noi stessi. La follia diventa una malattia mortale e contagiosa diffusa attraverso i romanzi, il libro diventa rapidamente un best-seller, i lettori impazziscono e si trasformano in esseri mostruosi, diventa persino un film per attrarre il pubblico a cui non piace leggere (lo stesso film che stiamo guardando). John Carpenter presenta i mass media come l’unico strumento con il potenziale per raggiungere miliardi di persone attraverso la stampa o sullo schermo in pochi giorni e In the Mouth of Madness mostra la realtà all’interno dei romanzi di Sutter Cane che letteralmente raggiunge e assume il controllo soggettivo del mondo, un concetto ancora più spaventoso e tristemente attuale al giorno d’oggi. Alla fine, siamo solo personaggi immaginari senza alcun controllo su noi stessi o sul mondo che ci circonda. La follia prende il sopravvento e la follia diventa la nuova realtà. A margine, un film perfetto, un incubo surreale e inesorabile senza un dettaglio fuori posto, nonché uno dei migliori di Carpenter. E uno dei migliori di Carpenter significa uno dei migliori in assoluto di ieri, oggi e domani.
recensione di Emiliano Zambon