VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
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THE UGLY STEPSISTER di Emilie Kristine Blichfeldt (2025)
Possiamo affermare con certezza che il genere horror negli ultimi anni stia tornando e dopo aver visto un proliferare del così detto “elevated horror”, etichetta che vuol dire poco o nulla per me ma in cui generalmente si fanno rientrare film come The VVitch, Midsommar e tutta quell’ondata di “horror d’autore” (che brutto termine), è arrivato il momento della ricomparsa del body horror, un genere che è sempre stato più di nicchia, anche per gli appassionati, ma che ultimamente sta tornando forte soprattutto grazie a una corrente di registe donne che lo hanno preso per raccontarci sé stesse in relazione alla società. È un discorso molto interessante visto che il corpo femminile è sempre stato oggetto, nel vero senso della parola, di un certo cinema patriarcale, anche nel genere horror. Abbiamo quindi visto Titane di Julia Ducournau nel 2021 seguito da The Substance di Coralie Fargeat nel 2024. Sicuramente nel sottobosco dei genere ci sono molto altri piccoli film, ma oggi vi parlo di uno di questi che ha saputo distinguersi con proiezioni al festival e annesse persone che hanno vomitato in sala (potrebbe essere una leggenda ma su Reddit un ragazzo afferma sia tutto vero verissimo).
The Ugly Stepsister è quindi un body horror, girato da una donna, che parla in modo intelligente del corpo femminile in relazione alla società. È un opera prima e va detto che a differenza dei nomi citati non ha giovato di una grossa distribuzione, finendo inevitabilmente di essere visto più dagli appassionati che dalla massa. È un peccato perché nonostante non sia esente da quei classici difetti che un’opera prima possa avere, ha sicuramente diverse frecce al proprio arco per non sfigurare di fianco ai film delle colleghe. Forse il motivo è proprio il circuito in cui nasce, ovvero quello del nord che ci ha regalato il black metal (e non solo, dai). Parliamo di una co-produzione Norvegia (nazionalità della regista) – Svezia – Polonia – Danimarca che parte da un idea molto particolare, raccontare la fiaba di Cenerentola dalla parte della “sorella brutta” che si dovrà preparare al famoso ballo per conquistare il principe a suon di scuola di danza, martellate sul naso e aghi sulla faccia per “sistemarsi” al meglio ed essere bella come i canoni impongono (la vedete la sottile denuncia sociale?). Una favola body horror sull’inseguire un ideale irraggiungibile e modelli di bellezza (e di vita) non proprio dei migliori. Il ritmo alle volte non fila via proprio liscio e non è così estremo come ci era stato fatto annusare in promozione (anche se ha i suoi momenti “forti”) ma si difende. La protagonista, almeno per me, non è così “brutta” come mi aspettavo e per un po’ ho pensato che fosse un problema ma, forse, il non esserlo davvero dà il senso del voler raggiungere un certo ideale anche in situazioni estetiche più canoniche e non estreme, che aggiungerebbe sicuramente una stratificazione al messaggio. Non lo so, fatevi un’idea vostra e poi parliamone! Insomma, non un capolavoro che “wow cosa ho visto” ma è ok ed essendo un film europeo e non americano ha quella patina di sporcizia che ci piace e non quella della plastica che in queste cose ci piace meno, nonostante usi dei font rosa grossi sparati. La cosa importante è che il sottotesto non si mangia il film che funziona e rimane guaribilissimo anche senza. Nel nostro paese, al momento in cui scrivo, non è prevista una distribuzione al cinema e non credo lo sarà. In America è arrivato dritto su Shudder, che è una piattaforma di streaming di cinema horror che compra e distribuisce film (piattaforma purtroppo non presente in Italia). Ma le vie dell’internet sono infinite e intanto, dopo averlo visto, ci segnamo il nome della regista.
recensione di Carmelo Garraffo
DEAD TALENTS SOCIETY di John Hsu (2024)
Realizzare una buona commedia horror non è facile. Almeno non è facile farla piacere a me. Di solito non cerco solo la facile risata o la presa in giro (che proprio non sopporto), ma preferisco opere più intelligenti che trattano con rispetto la materia e il genere, o sottogenere, di riferimento per decostruirne i meccanismi per poterci ridere sopra in modo intelligente. Non facile, no? Per esempio per me dei buoni film che fanno questo sono Shawn of the Dead (Da noi col brutto titolo L’alba dei morti Dementi) e One Cut of The Dead (Da noi con il brutto titolo Zombie contro Zombie). Si potrebbe aprire tutto paragrafo sul perché i titolisti italiani se vedono la dicitura “commedia” si sentono in dovere di mettere dei titoli SCEMI ma passiamo oltre. Comunque, tagliando corto, Dead Talents Society di John Hsu (2024) è un bellissimo film per tutta una serie di motivi! il primo, che non ne sottolinea per forza la bellezza, è che da noi sta nascostissimo nel catalogo di Netflix (senza che nessuno lo abbia mai pubblicizzato o semplicemente comunicato), che è comunque una cosa ok che vi permette, dopo aver letto questa mia recensione entusiasta, di svoltarvi al volo la serata. Altri motivi sono legati alla premesse che vi facevo sopra. Il genere di riferimento in questo caso è quello che da noi è identificato come il J-Horror (fantasmi coi capelloni, per intenderci, anche se questo film è taiwanese, e il genere di riferimento è in voga un po’ in tutta l’Asia). La trama è il più classico dei ribaltoni. Non siamo noi a incontrare un fantasma ma sarà la protagonista a diventarlo, costretta quindi a imparare tutti i trucchi del mestiere per spaventare e quindi sopravvivere in questa società alternativa popolata da tutta una serie di spiriti. Io ho riso davvero molto e le scene di paura sono girate come dovrebbero essere girate le scene di paura, con quel rispetto e, soprattutto, conoscenza e amore del genere di cui parlavo sopra. È davvero una piccola chicca di cui non parla nessuno ma che, dopo averlo visto, consiglio davvero a chiunque. Io, da buon appassionato sia di cinema horror che di cinema asiatico, me ne sono innamorato. Spero che possiate farlo anche voi.
recensione di Carmelo Garraffo
FINAL DESTINATION BLOODLINES di Zach Lipovsky e Adam Stein (2025)
Torna al cinema una delle saghe horror mainstream più famose della loro epoca a tredici anni dall’ultimo capitolo uscito. Sarà valsa la pena aspettare tanto? Questo rilancio del brand sarà riuscito? Tranquilli, sono qui per rispondere alle vostre domande o, perlomeno, per dirvi cosa ne penso io. Diciamo subito che Final Destination non è mai stata una saga horror di quelle che puntano sulla serietà narrativa. Il plot di questo film è il medesimo di tutti gli altri: ovvero una serie di personaggi sfuggono alla morte che cercherà quindi di ucciderli nei modi più fantasiosi, che sia per mano di una moneta o di una macchina per le radiazioni. Insomma, se conoscete la saga è il solito parco di divertimenti dove ogni cosa può porre fine alla tua vita. La cosa positiva di questo nuovo capitolo può per alcuni essere anche quella più negativa, dipende tutto da che tipo di spettatori siete, perché Bloodlines fa esattamente quello che ci si aspetta da un titolo di questo tipo, né più né meno. Non saprei dirvi se è migliore o peggiore dei capitolo precedenti perché, di fatto, è tutto un grande, unico, film di trovate visive e morti particolari. Posso dire però che ci sono altre saghe cinematografiche horror che sono invecchiate molto peggio e che film dopo film non sono riuscite a rimanere divertenti come avrebbero dovuto, finendo per deludere e annoiare (sto ovviamente parlando di Saw) mentre in questo caso il livello si attesta sul solito “divertente senza pretese” perché uno spettatore, vedendo il film, potrebbe anche chiedersi continuamente perché un personaggio ha deciso di fare questo o quello, lamentarsi di alcune reazioni sceme o di forzature varie ma non è davvero importante in questo tipo di esperienza. Il punto sono esclusivamente la giostra di uccisioni e una trama che riesca, anche con il nastro adesivo, a farle rimanere attaccate insieme. Succede e quindi funziona. È un Final Destination che fa Final Destination.
recensione di Carmelo Garraffo
HAVOC di Gareth Evans (2025)
Per una buona metà, Havoc si presenta come un noir piuttosto generico e stereotipato, un cartone animato realizzato da un cartoonist inesperto in cui, eccezion fatta per Tom Hardy e Forest Whitaker, i personaggi sono delle caricature al servizio di una trama convoluta. L’idea di un non-luogo che incarna il mash-up delle influenze da cui Gareth Evans attinge, dall’azione di Hong Kong degli anni Novanta a Michael Mann, può sembrare originale, ma l’effetto finale è quello di un mondo ambientato in una sorta di mappa di GTA, uno sfondo che sembra un insieme di location in cui far rimbalzare i personaggi tra una missione e l’altra. Per un po’, questa mancanza di stile e di direzione rende la visione scoraggiante. Per fortuna, dopo circa 50 minuti, lo chef sfodera il piatto forte e allora non solo il titolo si rivelerà perfettamente centrato, ma si farà perdonare di botto tutte le incertezze e gli errori di percorso, e lo farà ricordandoci come questo genere di pietanze Evans le sappia cucinare meglio di tutti, con buona pace degli epigoni. Irrompe a gamba tesa con una rissa incredibile in un night club (ovviamente) in cui il regista di The Raid e il suo sequel riemerge davvero, tra stunt impossibili fatti di lame, proiettili, mazze e qualunque oggetto di scena possa tornare utile per rompere ossa (c’è un momento da standing ovation con protagonista una bottiglia di champagne in una glacette). Assassini, bruti, protagonisti e innocenti di passaggio si riversano in un tritacarne di violenza mentre la telecamera saetta per tenere il passo con persone che volano e scivolano dentro e fuori dalla cornice. Se i film di Hong Kong e i loro equivalenti americani sono come un balletto, qui siamo tra il rave e il circo. Ma Havoc non è solo questa singola, incredibile sequenza, ce n’è anche un’altra alla fine, altrettanto grossa. E quindi: possono circa 20 minuti di azione gloriosa sostenere davvero un intero film? In questo caso, sì. Havoc non raggiungerà le vette del caos come caratterizzazione assoluta che vediamo in The Raid, John Wick e nei film asiatici che ispirano chiaramente il Nostro, ma si trasforma in un vero spettacolo, una sorta di assurda, violentissima installazione visiva da cui è impossibile staccare lo sguardo e che in qualche modo redime il piattume della storia e dei personaggi. Una volta in moto e riuniti, questi pedoni diventano parte di qualcosa di più grande.
recensione di Emiliano Zambon
MICKEY 17 di Bong Joon-ho (2025)
Mickey 17 segue le vicissitudini di un manovale spaziale interpretato da un Robert Pattinson in gran spolvero, un “sacrificabile” a cui vengono assegnati i compiti più pericolosi a bordo di un’astronave che sfreccia verso remoti pianeti. E se per molti di noi la morte è definitiva, non è lo stesso per Mickey, che dopo ogni decesso viene “ristampato” e rispedito a completare quei compiti che nessun altro vuole sobbarcarsi. Questa premessa introduce una avvincente space opera che è contemporaneamente una satira corrosiva, una storia d’amore e un horror. Bong Joon-ho non è certo noto per volare basso con le sfumature politiche nei suoi film, tuttavia quando trova la trama giusta le varie anime si rafforzano a vicenda. Parasite funzionava così bene grazie all’insostenibile tensione sociale che scorreva tra i personaggi con occasionali botte di ilarità a denti stretti, ma Mickey 17 è una commedia pura, afflitta in parte da una sorta di frenesia da caricatura della politica moderna a volte troppo insistita o cartoonesca, come nel caso di Mark Ruffalo che interpreta un personaggio così smaccatamente pensato come parodia di Donald Trump da ammazzare l’effetto comico. L’intreccio nel complesso rimane divertente, sebbene in qualche modo prevedibile, e il worldbuilding mozzafiato. Emerge anche finalmente il talento comico di Robert Pattinson al quale l’attore si adatta egregiamente, di Steven Yeun e di una spietata Toni Collette, anche se quest’ultima non ha certo bisogno di conferme, incarnando con grande naturalezza i dilemmi etici e morali presentati dal regista. Si potrebbe sostenere che i cattivi siano un po’ troppo monodimensionali, tuttavia nonostante la mano pesante Bong riesce a sviluppare a dovere molti dei temi del film, e questo almeno permette di mettere sul piatto una bella discussione sul colonialismo, sulla paura del diverso e sulla percepita sacrificabilità della classe operaia. Nel complesso, Mickey 17 è un buon film: non annoia, diverte e vanta un comparto visivo di prim’ordine, che consiglio vivamente di provare sullo schermo più grosso possibile.
recensione di Emiliano Zambon
ASH di Flying Lotus (2025)
Violentissimo horror fantascientifico a microbudget imbastito con cura e passione dall’amico Flying Lotus. Un film che tradisce solo occasionalmente i suoi limiti con risultati sorprendentemente efficaci, tra gustosi effetti pratici, miniature, neon lisergici e inquadrature che riescono nell’impresa di mascherare il budget a disposizione e farlo sembrare ben più generoso. Puntando alto, mette in luce un tocco visivo notevole che accoglie ispirazioni da Carpenter a Cronenberg passando per vibes alla Paul W.S. Anderson. L’ispirazione evidente e un approccio da battaglia a un genere in cui gli effetti speciali sono un prerequisito, sono solo funzionali a ciò che è, essenzialmente, una divertita raccolta di tropi, magari non particolarmente originali ma sempre efficaci. E quando meno te lo aspetti, questo empio sodalizio tra Event Horizon e The Thing, il tutto su scala infinitamente più piccola, concretizza alcune intuizioni che spesso fanno l’impensabile, farlo sembrare originale. Una performance convincente di Eiza González, un comparto sonoro con più di qualche debito di gratitudine a Carpenter ma anche completamente in linea con il lavoro di Flylo, per una correttissima durata di 95 minuti che non ne spreca nemmeno uno, fanno di Ash una chicchetta a cui vale la pena dedicare una serata. Potrà non essere la ventata d’aria fresca che cercate, ma è un “niente di nuovo” che fa simpatia, un more of the same particolarmente audace per un film che è costato più o meno quanto spendo in fumetti in un mese.
recensione di Emiliano Zambon