VIDEO NASTY è un termine coniato in Inghilterra negli anni 80 dal comitato censura per indicare i film da VHS che avevano un contenuto violento o comunque mal visto.
Questa rubrica parla di cinema ed è a cura di Carmelo Garraffo ed Emiliano Zambon.
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CLOWN IN A CORNFIELD di Eli Craig (2025)
In principio era Scream, lo slasher mainstream che diventava genere a sé dando il via a tutta una serie di imitazioni. In questi anni di film del genere ne abbiamo visti molti, di buoni e (soprattutto) di meno buoni. Clown in a Cornfield si infila dritto in quel filone e il gradimento potrebbe variare molto da quello che state cercando. Diciamo subito che non siamo davanti ad un capolavoro del genere che ne scardina le regole per stupire. Il film, in questo, è un compitino che segue in modo abbastanza prevedibile una storia che va dritta fino alla fine. Quindi abbiamo un gruppo di ragazzi della provincia americana, una leggenda metropolitana locale e, ovviamente, un sacco di morti che si susseguono fino alla verità finale. Insomma, un teen slasher da manuale che, però, sa intrattenere senza annoiare né infastidire più di tanto l’intelligenza di chi guarda. Un horrorino da seconda serata di Italia Uno.
recensione di Carmelo Garraffo
THE SURRENDER di Julia Max (2025)
The Surrender è uno di quei film che gioca con pochissimi elementi e molte idee, che può essere un’arma a doppio taglio perché se qualcosa non funziona si vede subito. Due personaggi per (quasi) tutto il tempo e una casa. Una figlia torna a casa dalla madre con cui non ha un ottimo rapporto a causa delll’ormai imminente morte del marito di una e padre dell’altra. Da qui partirà un film inizialmente non così promettente, anche un po’ “televisivo” nell’estetica che però, piano piano, costruisce. Ti fa credere che sia una di quelle storie che hanno a che fare con i rapporti travagliati madre-figlia con un sacco di non detti e questioni con cui fare i conti ma poi, anche qui, il film diventa altro, soprattutto quando ci renderemo conto che la figlia non è lì per quello che sta succedendo nei momenti precedenti alla morte del padre ma, in particolar modo, per quello che succederà dopo e, vi assicuro, non parliamo di eredità ma di demoni e sussurri. Se c’è una cosa che però, ammetto, non sono capace di dirvi è se ne varrà la pena. É uno di quei film di costruzione e accumulo che, a un certo punto, ti fa chiedere dove diavolo vuole andare a parare e, soprattutto, come chiuderà. Beh, ve lo dico, ha un finale tutto suo che per alcuni potrebbe essere “wow” mentre per altri potrebbe essere “e quindi?”. Questo sta a voi e poi l’importante in certi casi è il viaggio. Non saprei neanche dirvi se arriverà nelle nostre sale ma dato che ho saputo che a The Ugly Stepsister, di cui abbiamo parlato il mese scorso, arriverà tra qualche mese contro le mie previsioni chissà, magari arriverà anche questo.
recensione di Carmelo Garraffo
FRÉWAKA di Aislinn Clarke (2024)
A voi piacciono i folk horror? A me molto, sopratutto se sono ben fatti e hanno qualcosa da dire anche se, ultimamente, soprattutto dopo la riscoperta del genere grazie a The Witch (prima) e Midsommar (poi), i film di genere si sono moltiplicati e non tutti hanno qualcosa di originale da dire. FRÉWAKA per me sta un po’ nel mezzo, ha alcune cose da dire ma poteva sforzarsi di più nonostante rimanga una buona visione. Ma partiamo dall’inizio. Siamo in Irlanda, cosa relativamente nuova nel genere folk horror. Shoo è una ragazza che cerca di scappare dai suoi traumi e per farlo segue il suo lavoro di infermiera/assistente domiciliare fino alla casa di Peig, un’anziana signora con problemi mentali di cui la nostra protagonista dovrà prendersi cura. Peig è convinta che degli esseri soprannaturali l’abbiano rapita molti anni prima e, a poco a poco, la nostra protagonista comincerà a sospettare che non tutte le paranoie della sua assistita siamo tali. Ci troviamo quindi di fronte a un film che parla di passati dolorosi, di rapporti coi propri traumi in un racconto dove le storie delle due protagoniste saranno, forse, collegate tra loro. Oppure no? Sono diversi i temi trattati in questo film che ha forse l’unico problema di risultare un po’ già visto. Mi aspettavo che il setting irlandese avrebbe potuto dargli una connotazione più decisa e distante rispetto ai soliti film del filone e invece rimaniamo da quelle parti. Non è per forza un male ma a causa di questo fa forse un pelo più fatica ad emergere dal mucchio.
recensione di Carmelo Garraffo
28 YEARS LATER di Danny Boyle (2025)
L’arrivo di 28 days later nel 2002 segnò una svolta nella lunga tradizione cinematografica degli zombi. L’innovazione di Danny Boyle e Alex Garland fu quella di trasformare i non morti dei film di Romero in creature rapide e aggressive infettate da un patogeno altamente contagioso simile alla rabbia. All’inizio del nuovo secolo e di un’età informatica digitale, è sembrata una scelta piuttosto azzeccata: il mondo stava cambiando in modo più rapido di quanto chiunque potesse tenere traccia, e la velocità degli antagonisti rifletteva quello che sembrava un collasso sociale accelerato. Nel 2007 è arrivato un sequel, ne’ diretto da Boyle ne’ scritto da Garland. Non un grande successo quanto il primo, tuttavia ha rappresentato una buona continuazione del franchise che andava a inserirsi in un’ondata di proposte legate agli zombi, tra film (Shaun of the Dead, I Am Legend, Zombieland), serie tv e fumetti (The Walking Dead). Ora, a 23 anni da quando hanno rianimato per la prima volta la tradizione zombesca, Boyle e Garland tornano con un solido sequel che è anche il primo capitolo di una nuova trilogia (ovviamente). Nel mondo di 28 years later, la Gran Bretagna è stata tagliata interamente dal resto del mondo da una rigorosa quarantena. Un’isola al largo della costa scozzese, collegata alla terraferma da una lingua di pietra rialzata che scompare nell’alta marea, è diventata una roccaforte protetta per una comunità di sopravvissuti. Senza elettricità o tecnologia moderna, i residenti vivono una vita preindustriale fatta di agricoltura, pesca e celebrazioni rituali. Dopo un primo atto tesissimo di puro survival il film scivola sorprendentemente in uno straziante coming of age con un protagonista di 12 anni; proposta rischiosa, ma una sfida che il giovane Alfie Williams non teme, così come il confronto con giganti del calibro di Ralph Fiennes (è il raro film che non migliora considerevolmente con la presenza di Fiennes) e si carica con successo il viaggio sulle spalle. La sua performance è vivida, tra l’audace e il terrorizzato con talvolta ancora un bagliore infantile che ci immerge in una realtà emotiva dolorosa e riconoscibile, soprattutto nello straziante finale, e spero lo ritroveremo anche nel secondo capitolo, come il bizzarro cliffhanger dell’epilogo sembra di fatto presagire. La regia è sorprendentemente asciutta per un cineasta barocco come Boyle, che non resiste comunque a tentare qualche pacchianata durante le sequenze più concitate (i frame congelati quando sparano agli infetti sono effettivamente agghiaccianti), ma anche qualche grande classico del disagio che speravo di non dover più vedere (il montaggio videoclippato alla MTV su certi dialoghi), con risultati spesso irritanti che alternano momenti serissimi e autenticamente drammatici con il tipo di allegria zarra da b-movie. I film di zombi (e di vampiri), lo sappiamo, più di qualsiasi altro sottogenere horror, si prestano a letture allegoriche che incorporano elementi dello spirito del tempo in cui sono stati realizzati. Night of the Living Dead denunciava il razzismo degli anni ’60; Dawn of the Dead, con il suo centro commerciale, rappresentava una feroce critica al consumismo; 28 Days Later è stato concepito prima degli attacchi dell’11 settembre, ma la sua uscita l’anno dopo inevitabilmente l’ha fatto percepire come un commento sul nuovo ordine globale con la sua paranoia da invasione; 28 weeks later, con la sua allegoria della guerra in Iraq e la critica (traballante) all’ingerenza Nato in Europa. Arrivato sulla scia di Covid e Brexit, infine, 28 years later evoca una visione di una Gran Bretagna conservatrice, isolata e intoccabile dall’Europa continentale. Emergono anche paure più profonde e più immateriali sepolte sotto questa turbolenta superficie, ma Boyle e Garland le sfiorano appena e non concedono troppo tempo per fermarsi a meditare, soprattutto se un infetto gigantesco che brandisce una colonna vertebrale con una testa ancora attaccata come fosse una mazza medievale ti insegue, preferendo probabilmente conservare certe questioni per la seconda portata della trilogia.
recensione di Emiliano Zambon
UNTIL DAWN di David F. Sandberg (2025)
È sempre una scelta controversa quando adatti un videogioco e decidi di non attenerti alla sua storia, ma se proprio dovessi scegliere di farlo, uno slasher a scelta multipla in cui si prendono diverse decisioni per tentare di sopravvivere a una notte in cui ognuno vive un’esperienza di gioco unica, con risultati sempre differenti, sembra un buon punto di partenza. Until Dawn introduce una storia completamente nuova, ma non priva di molte connessioni con il gioco. La vera domanda è: funziona? Abbastanza. Il film segue un gruppo di amici alla ricerca della sorella scomparsa di una di loro. Incipit generico, ma sembra essere esattamente quello che vuole. Una volta raggiunta l’ultima posizione conosciuta della sorella, finiscono in un time loop alla Groundhog Day in cui cominciano a morire a ripetizione per mano dei cugini di Jason e altre simpatiche sorprese. C’era una certa fetta di fanbase sconvolta per la deviazione dalla storia del gioco, ma la trovo un critica un po’ sterile. Personalmente ho amato molto le mie molteplici partite, ma abbiamo già sviscerato a dovere quella trama, perché dovremmo riproporla semplicemente con altri personaggi? Invece, Sandberg è stato in grado di legare il film al gioco in modo interessante, pur concedendo abbastanza spazio per respirare da solo. Può risultare un po’ stantio a tratti, con il time loop che rema contro la narrazione, e un cast che fa un lavoro decente ma nessuno ha davvero molto con cui lavorare; per fortuna, ci si ritrova meno a fregarsene di loro e più all’idea che qualcuno riesca a sfuggire al ciclo. Per un film in cui i personaggi muoiono di continuo, tuttavia, mi sono sentito anche un po ‘deluso dalle morti stesse, spesso troppo generiche. Tutte realizzate bene a livello tecnico, ma alcune avvengono off-screen o ne vediamo solo le conseguenze, mentre altre, per fortuna, sono invece piuttosto memorabili e gestite così bene che quasi si fanno perdonare gli incidenti di percorso. Quasi. Perché quando hai a che fare con questo tipo di roba, non garantire una massiccia dose di ammazzamenti belli è sempre un’occasione mancata. Anche strutturalmente Until Dawn presenta qualche incertezza, quelle di un film che sembra interessato a separare i tropi e il genere, ma che il momento dopo si sente invece perfettamente allineato agli stereotipi. Se hai intenzione di abbattere i paletti, allora hai bisogno di personaggi e ritmi che sovvertano davvero la norma, invece, abbiamo personaggi insipidi, antipatici e indistinguibili le une dagli altri e una storia che si regge su un gimmick. Nel complesso mi sono discretamente divertito, anche se si rivela un viaggio un po’ troppo sicuro. Ovviamente fermo restando che sarò sempre e comunque dalla parte di qualsiasi film dia a Peter Stormare una busta paga, sia chiaro.
recensione di Emiliano Zambon MARSHMALLOW di Daniel DelPurgatorio (2025)
Sulle prime pensavo di trovarmi di fronte al più classico degli slasher estivi: un campeggio, un lago, racconti dell’orrore attorno al fuoco, qualche tensione erotica e un’onesta mattanza per passare una tranquilla serata pop corn, bibitozza e cervello in stand by. Perché nonostante l’emorragia di film di questo tipo, quando sono realizzati con competenza esercitano ancora su di me il loro fascino e ancora mi divertono, anche al netto di una certa prevedibilità. E invece Marshmallow, sulle note di Sleepaway Camp, classicone anni ‘80 mai abbastanza celebrato, guadagna presto terreno spostando la prospettiva su un azzeccato cast di bambini al centro della sua storia. Gli animatori e i consulenti più anziani qui giocano in secondo piano rispetto a loro, conferendo al film una tensione leggermente più intensa. Non capita spesso che in questi titoli gli assalitori prendano di mira dei bambini. Niente di troppo estremo, sia chiaro, ma neppure si trattiene. La vera sorpresa è un grosso twist nel secondo atto a cui tuttavia non è concesso di svilupparsi a dovere a causa della porzione considerevole di runtime dedicata all’antipasto, e una sceneggiatura un po’ facilona nell’ultima parte ci lascia con diversi buchi da cui trarre le nostre conclusioni. Se fosse un adattamento di Piccoli Brividi, questo risultato goffo e un po’ vago andrebbe bene, ma in quanto film che mira a sovvertire le aspettative lascia perplessi. Nonostante tutto però il film di DelPurgatorio rimane una piacevole escursione fino a quell’enorme punto di rottura che non può lasciare indifferenti e lo salva dal finire nel cestone dell’anonimato dell’attuale ciclo di slasher. Godibile.
recensione di Emiliano Zambon