Un bel respiro. Via. Sto per recensire l’ultimo disco dei Weekend Nachos. L’ultimo in ordine d’uscita.
Non solo.
L’ultimo di sempre.
Già. Un anno fa, quando la Relapse aveva diffuso il comunicato stampa rispetto a questo nuovo lavoro, aveva sottolineato come per John Hoffman e soci questo sarebbe stato il canto del cigno.
In un’epoca di dinosauri del metal che non hanno smesso di ruggire, insieme a pesanti protoceratopi che, fiutato il business, a malapena riescono a garrire, lanciandosi in assurde reunion, credo sia onorevole e meritevole di rispetto quando una band sappia riconoscere il momento adatto per uscire dalle scene, per dire basta. Per innumerevoli ragioni che posso solamente immaginare: le soddisfazioni musicali oramai raggiunte appieno e la conseguente mancanza di stimoli; l’idea che un progetto musicale, per quanto bello e coesivo, abbia detto tutto quel che aveva da dire e così via.
Anche perché, di fronte a una situazione simile, quando la band in questione sono proprio i Weekend Nachos, gruppo a livello underground-ma-non-troppo (stiamo parlando della primissima entità musicale che si rifà a sonorità powerviolence messa sotto contratto dalla Signora Relapse; n.d.R.), è facile fomentare a livelli siderali l’alone di culto che, attorno a loro, ha sempre aleggiato. Quindi, non solo l’ultimo disco, ma anche l’intera discografia dei Nostri, potrebbe trasformarsi in un instant-classic, consumato anche da ‘poserelli’ dell’hardcore tutti barbe, tatuaggi e tagli da gerarca nazista, pronti a foto in posa tattica per ‘instagrammarsi’ col vinile giusto; gente, peraltro, sovente presa per il culo nelle lyrics del combo dell’Illinois.
Tralasciando le questioni spinosamente deontologiche, il nuovo disco dei Weekend Nachos, fin dal titolo, Apology, si vuole difendere a denti stretti – forse perché la fiaba s’è conclusa troppo presto? – ma mena mazzate quando deve e, se l’ascoltatore conoscesse già la band in questione, suona esattamente come dovrebbe suonare un disco dei Weekend Nachos.
Le canzoni meglio riuscite sono senza dubbio quelle più brevi e ammiccanti a certo fastcore di casa Infest – penso a “Dust”, scheggia impazzita su cui trovano spazio anche gli screams di Dylan Walker dei Full of Hell, o a “Fake Political Song”, canzone che, dal titolo e dal suo minuto scarso, si dimostra quintessenza del powerviolence –; fra i pezzi più articolati, invece, emerge l’accoppiata letale “Judged” + “Dog Shit Slave” – la prima, puro fastcore, piena zeppa di stop’n’go’s da infarto, voce aggressiva ed efficace a livello di metrica e qualche breakdown à la Napalm Death per gradire; la seconda, con un andazzo simile a quella che la precede, ma solamente più groovy, a livello di riffing –, insieme a “World Genocide”, il cui incedere doomish e cadenzato e, soprattutto, l’amore per i breakdown figli del HCxNY, fanno ripensare, nel suo intento, a certi Water Torture, ma anche a “Fillicide” degli ACxDC.
L’andazzo compositivo di Apology è, grosso modo, sui livelli dell’ottimo Worthless – il primo disco su Relapse dei Weekend Nachos – ma, forse, leggermente meno ispirato e decisamente più ricco di parti lente fra doom e sludge, i quali, per quanto impattanti, talora puzzano un po’ di ‘riempitivi’ (vedi l’omonima, posta in chiusura: mi rendo conto che, fra le persone che ho contattato per confrontarmi con pareri esterni, la adorano tutti, complice un ruffiano pianoforte strappalacrime in coda… io la trovo occhéi, ma noiosetta; n.d.R.).
Apology, dunque, si dimostra un bel canto del cigno, ma anche, nel caso qualche nuovo fan s’avvicinasse ai Weekend Nachos e a queste sonorità per la prima volta, uno spunto per scoprire, da un lato, una band valida, con solide radici attitudinali nell’underground, dall’altro, tutto quel mondo di veracità e genuinità hardcore che ha reso possibili questi fantastici anni di mazzate e attitudine.
Grazie John, Andy, Brian e Drew!
(Relapse, 2016)
1. 2015
2. Dust
3. Fake Political Song
4. All
5. Judged
6. Dog Shit Slave
7. Writhe
8. N.A.R.C.
9. POW MIA
10. World Genocide
11. Eulogy
12. Night Plans
13. Apology