Nubi tempestose si agitano nel Tennessee e in particolare sulle candide teste dei Whitechapel. Certe dichiarazioni contraddittorie (“non ci sono clean vocals” / “sì ci sono” / “solo in due canzoni”) non hanno certamente giovato: la pretesa di definire l’ultimo disco come rivolto a persone “open minded” è certamente legittima, ma i ragazzi non hanno fatto un’ottima figura, a vedere il caos generato.
La copertina di questo nuovo Mark Of The Blade è come sempre molto bella e ben fatta, ma, una volta girata e letti i titoli delle canzoni, un brivido scorre lentamente lungo tutta la schiena. L’opener per fortuna è una scarica di adrenalina degna dei vecchi tempi: il sound sembra seguire la falsa riga di Our Endless War, l’assolo è godibile e si incastra bene sulle le ritmiche pachidermiche dei tre chitarristi. Peccato che il resto del disco subisca tanti alti e bassi. Anzi, più bassi che alti, purtroppo. In breve tempo, infatti, si entra in un vortice di monotonia e banalità. Le chitarre non hanno mordente, la brutalità che caratterizzava la band è solo un lontano ricordo. Il lato djent-oriented sta lentamente prendendo il sopravvento, smorzando l’energia delle prime opere. Meshuggah, Slipknot e Lamb Of God sembrano essere i nuovi beniamini del gruppo e le loro influenze si sentono eccome. Il che, volendo, non è un male, anzi: pare però che i Whitechapel si siano dimenticati chi fossero un tempo, perdendo il controllo del loro carro armato musicale. È addirittura presente una ballata, “Bring Me Home”, nella quale compaiono le famose clean vocals: un brano che, al di là delle scelte stilistiche, che non lascia granché all’ascoltatore.
Purtroppo c’è poco da salvare in questo disco, anche dopo numerosi ascolti. Mark of The Blade è il primo passo falso di una grandissima band.
(Metal Blade Records, 2016)
01. The Void
02. Mark of the Blade
03. Elitist Ones
04. Bring Me Home
05. Tremors
06. A Killing Industry
07. Tormented
08. Brotherhood
09. Dwell in the Shadows
10. Venomous
11. Decennium