Per parlare di questo disco conviene anche accennare brevemente alla storia degli Wows. Il gruppo si forma a Verona nel 2008, e giunge a febbraio 2013 alla pubblicazione del suo primo album War on Wall Street. Precisazione: all’epoca, la band si chiamava The Wows e suonava un indie-rock saltellante e radiofonico. Per quanto si trattasse di musica obiettivamente ben scritta ed eseguita, non si trattava di nulla che potesse comparire su queste pagine.
Cosa sia accaduto successivamente lo ignoriamo: fatto sta che gli Wows che pubblicano Aion sono tutt’altra cosa. Lasciato cadere il The dal proprio moniker, il combo veronese ha virato decisamente il timone e ci propone oggi un’efficace miscela di doom, post metal e rock cerebrale che sembra avere come primo riferimento i Tool (ma, come vedremo, non solo). La leggendaria band californiana pare ispirare in particolare il cantato di Paolo Bertaiola, strepitoso emulo di Sua Maestà Maynard James Keenan che, a tratti, persino supera in rabbia ed intensità (si senta “Nemesi” per conferma), seppur non ne abbia (ancora?) la medesima versatilità ed estensione. Aion è però un disco che non si fa rinchiudere in un genere ben preciso: gli Wows puntano innanzitutto a stordirvi, a trasportarvi in una dimensione onirica, senza troppo badare a quali strumenti usare per giungere allo scopo. La suddivisione in tracce è quasi superflua, tanto il disco è monolitico; e tuttavia, vi si rintracciano influenze diversissime: a tratti, quando la nebbia si infittisce e il lato drone della band si fa preponderante, si odono rimandi ai Dark Buddha Rising, per il fragore della sezione ritmica e l’incedere ipnotico; quando (ad esempio in “Hades”) gli Wows decidono di picchiare, invece, ricordano i Process of Guilt, benché evidentemente senza la medesima ruvidezza del combo death-doom lusitano. Gli Wows dimostrano così di trovarsi a proprio agio sia negli episodi più eterei, che nella costruzione di canzoni vere e proprie: il crescendo che attraversa “Riwka” ne è il miglior esempio. Segno questo di una significativa versatilità compositiva.
Le uniche perplessità su questo disco vengono da quella che, a chi scrive, è parsa la prolissità di alcune fasi (si senta in particolare, ma non solo, la conclusiva “Abraxas”), e l’eccessiva insistenza su tempi, ritmiche e melodie estremamente dilatati che, seppur funzionali all’atmosfera che la band vuole creare, contribuiscono talvolta a far calare l’attenzione. Manca insomma ancora qualcosa perché l’ensemble veronese possa raggiungere quella decisa personalità artistica indispensabile per emergere nell’affollatissimo (anche in un ambito decisamente underground come questo) panorama odierno. Ma si tratta di aspetti comunque marginali, tanto più considerando che si tratta sostanzialmente di un’opera prima, almeno in campo “post” e dintorni.
(Argonauta Records, 2015)
1. Alexithymia
2. Chakpori
3. Nemesi
4. Alaska
5. Path of Decay
6. Riwka
7. Hades
8. Abraxas