(Drown Within, Dreamingorilla, Rude, Autumn Leaves, Bookhouse, Désordre Ordonné, Dingleberry, Désertion… 2015)
01. Demi-chaîne
02. Trabajo Y Arrebato
03. Révolte En Solde
04. Les Deux Pieds Dans Le Vide
05. L’entre Deux Mers
06. Arbeit Und Rhythmus
07. Hayekeynes
08. En Bon Père De Famille
09. La Pénibilité Et La Crass
A prima vista pare uno schiacciasassi dell’anteguerra, anzi, no, è una pressa per la stampa munita di pesanti rulli. O che sia piuttosto un semplice telaio, chissà, per filare trame di qualche tessuto industriale? Lungi dal volerla decifrare, l’immagine di copertina di questo Tripalium regala all’osservatore l’impressione che tutti quegli ingranaggi siano stati progettati ed assemblati per ordire una qualche macchinazione diabolica e complessa, un qualcosa che per essere creato abbia bisogno prima di una sistematica destrutturazione.
Proprio su geometrie oscure costituite da particelle elementari che s’incastrano sembra reggersi il nuovo disco del quartetto francese Grand Detour. Sarà un caso? Ma la materia in questione è solo in apparenza un tappeto spianato di fronte all’ascoltatore. In realtà la trama sonora che fuoriesce dall’ingranaggio propone strati diversi – a volte accostati, altre sovrapposti – che richiedono più e più ascolti e da più punti di vista per essere colti nella loro interezza. Proprio qui risiedono la bravura e al tempo stesso il vizio di forma della band: l’abilità nel masticare un linguaggio fluido e personalizzato mutuato però dagli stilemi e dagli schemi di un filone, quello dell’heavy strumentale, in cui molto se non già tutto è stato detto. Ecco quindi riaffiorare le impalcature melodiche e ritmiche matematicizzate tanto care – seppur condivise e riproposte in modi incredibilmente differenti – a gruppi come Russian Circles e ai primi Maps & Atlases, tanto per citarne gli estremi più blasonati, incorniciate in questo caso dai francesi in un unicum intelligente nel quale convergono stili assai distanti tra loro ma pur sempre imparentati.
Contrariamente alle sfumature industriali evocate dalla copertina, infatti, la musica dei Grand Detour si basa su strutture strumentali di chiara derivazione post hc che però non hanno perso l’elasticità, la spigolosità e l’affilatura di uno screamo verace sebbene insolito perché sprovvisto di parti vocali, ma pur sempre rintracciabile nel dna della band, soprattutto nelle sezioni più tese e veloci e nell’uso di melodie emozionali senza per questo essere emo tout-court. A questo scheletro i quattro aggiungono suoni limpidi ed intrecci di chitarra che hanno fatto colazione a base di post rock e si allacciano nella complessità di una trama pur menando duro e in maniera intelligente. Qui e là la stoffa di alcuni riff rischia di trasformarli in un unico pattern indistinto tra un pezzo e l’altro, ma questo è un pregio/difetto a cui ci si abitua presto, sempre nell’ottica della visione d’insieme in cui credo si possa o addirittura si debba ascoltare il disco. Visti dal vivo la primavera scorsa m’avevano impressionato per la carica emotiva e la precisione tecnica che avevano regalato al pubblico un live energetico e convincente. Sulle righe la sezione ritmica: un batterista dritto e potente e magistralmente rifornito di materiale da piallare per mano del bassista molleggiato e sempre sul pezzo, su disco purtroppo un po’ meno presente che sul palco.
In definitiva bello questo Tripalium, anche nella veste grafica – essenziale e sobria con le sue trasparenze nell’edizione in vinile – e pure coprodotto da etichette nostrane, tra cui Drown Within, Rude e Dreamingorilla, realtà sempre più attente a ciò che capita dalle nostre parti e non solo, come questo caso dimostra. Unico difetto di fabbricazione: la mancanza di momenti ‘epici’ che si stampino nella memoria, e il conseguente fatto che ‘il prodotto’ sfornato dalla pressa/telaio/rullo o che dir si voglia – per quanto bello ed elaborato – non restituisca del tutto quella profondità di campo che ci si attendeva. Da seguire e da aspettare al prossimo varco, comunque.
7.0