Ci sono band che sanno sempre esattamente quello che fanno e sono anche coscienti delle proprie possibilità. Questo non è da tutti. I Birds in Row arrivano con Gris Klein al loro quinto album in studio con una qualità conservata e in nemmeno tre quarti d’ora abbiamo tempo di sperimentare quanto la melodia disperata tipica del post hardcore converga perfettamente con la meccanicità di un mathcore non estremo senza buchi, senza punti deboli. E non bisogna domandarsi se con questo nuovo capitolo la band sia giunta a un punto di svolta in cui tutto è perfettamente bilanciato perché può darsi benissimo che sia effettivamente così. Non ci sono più elementi che sovrastano come capitava in You, Me & the Violence per esempio. Questa è una perfetta prova della band e da qui in poi non ci sarà più nulla a dar fastidio e stecca al loro lavoro. O almeno così di vuol sperare.
Certo è che dando un’occhiata alla cover di Astral Fortress viene in mente tutto tranne qualcosa di bello, ma sono i Darkthrone e allora va bene tutto. Astral Fortress è uno di quei dischi della band facente parte della loro facciata meno black e ne abbiamo sentiti da parte loro, questo però si stabilisce su un sentiero stoner doom. Grezzo e ruvido come solo loro sanno fare, questo disco si prende i suoi tempi, facendo del minimalismo la sua forza trainante. Alla lunga va detto che i Darkthrone non hanno più nulla da dimostrare e quindi il lavoro in questione diciamo che passa un po’ così, del tipo “l’ho ascoltato, sono in pari” e questo è un po’ un difetto. Ma non significa che non ci sia di che godere, in quanto la pesantezza e le sonorità stregonesche si fanno sentire soprattutto in “The Sea Beneath The Seas Of The Sea” (titolo che pare uno scherzo più che altro). Diciamo che si tratta di qualcosa che rassicura, Astral Fortress è uno di quei dischi su cui andare sul sicuro quando si è indecisi. O al limite per affezionati.
Il visionario maestro del metal progressivo è di nuovo emerso dalla marea per consegnarci Lightwork, un nuovo disco. La produttività di questo signore mi lascia senza parole, ma nonostante la sua produzione praticamente industriale riesce sempre a stupire. Questa volta si è lanciato in qualcosa che di metal ha molto poco, anzi, si direbbe quasi un disco di musica elettronica con qualche intervallo pesante. E sarò sincero: credo sia davvero un gran bel disco e sono queste le occasioni in cui un artista fa capire che può davvero scrivere per anni a venire. Lightwork è un disco che incorpora un pop incredibilmente fruibile e ne fa lo spirito vivo per dei brani poco impegnativi ma colmi di esperienza ed abilità, senza dimenticare una sensibilità compositiva praticamente divina. Lightwork è in grado di ammaliare e sbigottire con soluzioni all’apparenza semplici, ma che non lo sono affatto. Basti sentire “Heartbreaker” per capire di cosa sto scrivendo, uno dei brani che più racchiude l’essenza di un disco su cui puoi ballare e meditare a intervalli regolari.
I dischi della band di Des Moines sono noti per essere a scoppio ritardato. All’inizio paiono delle gran porcate, ma il tempo e gli ascolti dallo loro ragione. È sempre stato così, ma The End, So Far si presenta come una sorta di riciclaggio di alcune delle cose fatte in tempi recenti dalla band, con l’aggiunta di uno spirito pop, da classifica quasi che va a rovinare praticamente tutta l’esperienza d’ascolto a partire da una opener completamente anticlimatica quale è “Adderal” fino a brani sciatti come “Yen” o “Heirloom, idonei alla riproduzione per radio. Non so se anche questa volta il tempo darà loro ragione, ma per il momento è no.