C’è odore di terra bruciata e l’atmosfera è densa di polveri. Migliaia di artigli sembrano aver scarnificato la superficie su cui figure umane vagano e incespicano cercando di orientarsi, ma il cielo è uno strato compatto e impenetrabile, sole e stelle non possono più offrire conforto. Questo è lo scenario che evoca What One Becomes, un tornado che sconquassa la già devastata Waste Land cosparsa dei cocci e dei rifiuti del passato, gli stessi che – ricongiunti – un tempo costituivano le architetture imponenti e razionali degli Isis, ma anche delle avanguardie più intransigenti ed estreme del post metal. Come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, ecco il nuovo canto di fuoco dei Sumac.
La profezia recitata in “Collapse And Crush” è venuta a compimento. Era il lontano 2000. Oggi Aaron Turner sembra essersi lasciato alle spalle le macerie dei tempi che furono ritrovando l’ispirazione sfumata dopo la fine dell’epopea del suo gruppo-madre, e qualcosa è successo anche a distanza del pur recente The Deal, opera prima del suo nuovo progetto. What One Becomes è un golem in cui sono confluiti momenti molto diversi tra loro e spiazza per la sua deformità: all’interno di ogni pezzo coesistono suoni, umori, voci e anime differenti che si fondono sempre e comunque in un unisono luciferino. Si inizia infatti col caos (‘In principio era il caos…’ riecheggia nelle mie orecchie), lasciato al maelstrom dei primi tre minuti di “Image Of Control”, un brano che si riassesta presto in una cavalcata epica per poi liquefarsi nuovamente nel delirio che l’aveva generato. “Rigid Man” incalza con una specie di post-sludge stentoreo eppure sincopato. A volumi alti basso e chitarra comprimono il torace e lo scavano. La seconda parte del pezzo, poi, è un martello che s’abbatte furioso sull’incudine, forgiando lame d’ascia con precisione millimetrica. A seguire il mantra appena più moderato di “Clutch Of Oblivion”, che adagiato su se stesso ricorda gli Earth per poi trasformarsi in caterpillar cingolato poco dopo il quarto minuto con un cambio d’umore repentino. “Blackout”, brano potente ma estremamente lungo, stupisce per la sua eterogeneità ma snerva un po’ per i vuoti e le ripartenze che lo fanno superare i diciassette minuti, mentre “Will To Reach” chiude il cerchio riesumando e riassumendo i momenti migliori delle precedenti tracce.
Dito al cielo per questo What One Becomes, quindi, e per diverse ragioni: una su tutte la chitarra di Turner, e non tanto nella ricercatezza del suono, quanto piuttosto nel superamento dell’angolosità del riff che già l’aveva contraddistinto nel lavoro fatto per gli Isis in favore di uno stile più libero. Il suo è un fraseggio che si dipana in rare ripetizioni, un fluido vitale/mortale che scorre imprevedibile e incandescente come lava. Turner s’è lasciato alle spalle la quadratura di un tempo per lanciarsi in sferzate slabbrate e urticanti. Una frusta. Il gusto e la cura per il riff e la ripetizione/stratificazione stordente di pattern ritmici sono stati soppiantati da un istinto viscerale, materico, un approccio alla chitarra che se non è nuovo da un punto di vista artistico tout-court, lo è di certo per il Nostro e qui acquista risvolti è a dir poco devastanti. A dargli manforte c’è poi lo schiacciasassi della sezione ritmica affidata a Nick Yacyshyn dei Baptists e a quel demi-god del math-core che è Brian Cook, una coppia che sistematicamente distrugge e ricostruisce strutture metalliche ma estremamente resilienti. Ma è poi anche vero che qualcosa di simile s’era già sentito. Il nome di Gentry Densley e dei suoi Eagle Twin dovrebbe dire molto alle orecchie degli addetti ai lavori, ma a differenza dello stile del duo di Salt Lake City – meno articolato e imperniato principalmente su un doom-sludge esoterico ed evocativo – il suono dei Sumac si contraddistingue per maggiore dinamicità e raccoglie su di sé l’eredità di più generi estremi. Ciliegina sulla torta? La produzione del redivivo maestro dei suoni impattanti, Kurt Ballou, che stavolta confeziona un mezzo capolavoro in una chiesa sconsacrata (lo studio “The Unknown” di proprietà del mitico Phil Elvrum) lasciando respirare gli strumenti e concedendo spazio e ambiente a profusione che donano ulteriore cavernosità al tutto.
What One Becomes è in definitiva un disco mastodontico, addirittura ingombrante, di certo difficile da assimilare, e non a caso la recensione si apre con una citazione così scomoda e azzardata. Ma se le sue dimensioni lo portano ad essere così ostico, è proprio l’impegno che gli si deve dedicare per capirlo a renderlo un disco difficile e quindi bello. E credetemi, una volta superato l’impatto dei primi ascolti, l’esperienza vi sembrerà liberatoria e necessaria come un imprevisto rito di purificazione.
(Thrill Jockey, 2016)
01. Image Of Control
02. Rigid Man
03. Clutch Of Oblivion
04. Blackout
05. Will To Reach