Ascoltare la nuova opera del progetto avantgarde Kayo Dot lascia delle sensazioni contrastanti. Plastic House on Base of Sky, questo il nome dell’album targato 2016, è un viaggio che parte dalla fine per poi tornare al principio, un disco che si involve pur contenendo al suo interno una ricchezza sonora disarmante; una ricchezza che si esprime in passaggi strumentali naviganti nel pentagramma fieri ed epici, ma che errano inesorabilmente sulla lunga distanza.
“Amalia’s Theme” irrompe con un sound che mescola atmosfere sinfoniche ad inserti melodici elettronici, conditi con incursioni nella new wave. Le sonorità si fanno sempre più visionarie, con voci effettate, beat morbosi ed arpeggi di chitarra pinkfloydiani. I tempi si dilatano e si allungano per poi restringersi, come a voler inglobare insieme l’eleganza del prog con il dark degli anni 80′, rendendo il tutto comunque attuale: si potrebbe quasi affermare che per certi versi il brano è ballabile. Subito dopo, però, le cose cominciano a prendere una piega bizzarra. “All The Pain in All The Wide World” sviluppa dei concetti musicali più cupi ed apocalittici: le tastiere si rivelano essere sempre più angoscianti, sostenute da vocals disperse in un assoluto spazio profondo. Finora lo stile della band di Brooklyn poteva risultare variegato, magari complesso ma comunque godibile e gratificante. Questo pezzo, al contrario, si allunga a dismisura, tediando l’udito con vocalizzi fin troppo schizofrenici e strutture strumentali eccessivamente caotiche, diventando un mattone davvero pesante da digerire. C’è una maggiore tendenza all’autocompiacimento, situazione che ci può anche stare, sempre se non prende il sopravvento come in questo caso.
Le cose in parte migliorano con “Magnetism”, nella quale viene rafforzato l’apparato elettronico per sviluppare il concetto di avanguardia tanto caro al gruppo. La sezione ritmica si fa più arrogante e le chitarre si ispessiscono, dando un contributo maggiore. La sensazione è quella di un’unione tra il post rock e l’elettronica: la coda del brano ricorda molto i Vangelis. Si tratta dunque di un brano che cerca di ribadire l’obbiettivo del gruppo di ricercare e al tempo stesso stupire; peccato però che poco dopo arrivino due brani finali fin troppo deboli per dare delle conferme. “Rings of Earth” riporta l’astronave su territori nuovamente eighties, tra eteree melodie vocali e tantissima electro martellante, ma mai soffocante; un pezzo decisamente statico se paragonato alla notevole abbondanza di elementi nei pezzi precedenti, che lascia l’amaro in bocca. Amaro che diventa ancora più pressante con la finale “Brittle Urchin”, dove tutto viene stravolto in favore di una ballata intimista e crepuscolare (salvo poi inasprirsi occasionalmente con qualche pennellata heavy) lasciata un po’ troppo al caso. Un fluttuante epilogo che vorrebbe far rilassare ma che invece non trasmette le dovute sensazioni.
Dispiace assistere alle delusioni, specie se arrivano da una band avantgarde di notevole qualità come i Kayo Dot, ma bisogna essere obiettivi. Dare un voto all’arte mette in soggezione, ma alle volte la migliore risposta è la prima che viene alla mente. Plastic House on Base of Sky è un lavoro meritevole di ascolto, ma che consuma tutte le energie troppo presto per poi scaricarsi già verso la metà del disco.
(The Flenser, 2016)
1. Amalia’s Theme
2. All The Pain in All the Wide World
3. Magnetism
4. Rings of Earth
5. Brittle Urchin
7.0