Prima ancora che nei King Woman, Kristina Esfandiari ha affinato le proprie abilità di cantante nei Whirr, band shoegaze capitanata dall’ex Deafheaven Nick Bassett, e nel progetto solista Miserable. Anche i King Woman nascono come progetto solista, ma è come band che nel 2014 presentano l’EP Doubt. A questo punto la Relapse decide di rafforzare il proprio reparto di doom band female fronted (Windhand, Royal Thunder) accogliendoli tra le proprie braccia. Questo Created in the Image of Suffering non è però un mero epigono, essendo profondamente plasmato e permeato dalla personalità della Esfandiari, che di carattere ne ha da vendere.
King Woman truly suffer to create their art, questa è la chiosa che chiude la loro bio. È vero, ne è venuto fuori un lavoro nerissimo, estremo, che per la Relapse, lo sappiamo bene, non significa sempre vocione grossa e velocità aliene. Le coordinate di partenza sono quelle del doom, ma non vengono disdegnate virate verso un certo rock psichedelico (volendo si potrebbe parlare persino di Jefferson Airplane) e, ovviamente, non mancano richiami all’esperienza shoegaze della Esfandiari. Che, per il resto, ammanta da protagonista l’intero lavoro con un sofferto autobiografismo, quello relativo a un’infanzia frastornata e segnata dal fanatismo religioso. Nello scandagliare questo spettro emotivo non di rado viene in mente tutto l’odore di eresia del Gospel of the Witch di Karyn Crisis.
“Utopia”, che è la traccia di apertura, si presenta come un tappeto di doom popolato da streghe, riempito da una voce eterea, ossessiva, aeriforme, che ha il sapore di un’evocazione, di un rituale, mentre riffoni grassi macinano sudore. Nella successiva “Deny”, a cui è stato dedicato un videoclip, la Esfandiari è ormai una parca, cantrice di un’immonda mestizia capace di raccogliere, attorno a sé e alla sua voce profondissima, tutta la cupezza che può. Il risultato è un’oscura liturgia capace di far rivivere certe magie psych, accompagnata da una batteria marziale e da una triste chitarra. Più marcatamente shoegaze è la base vibrante ed elettrica di “Shame”, ma la gamma semantica esplorata è di un altro taglio, tocca livelli di angoscia impensabili per un act shoegaze e si palesa come un lento vortice dentro cui si dimena una voce roca e sciamanica. Nucleo di Created in the Image of Suffering è la successiva “Hierophant”, una traccia lunga, con reiteramenti eterni, ma più distesa nelle melodie, che ricordano tanto il tenero grunge degli Smashing Pumpkins quanto lo shoegaze di Julee Cruise.
Per il resto il doom dei King Woman è un avvolgente fluido mistico, spiritato e ossessivo, più che dinamico, che si lascia scappare talora chitarre gonfie che si abbattono giù come accettate. Se proprio vogliamo trovare un neo è l’impressione che la personalità della cantante adombri, rendendoli anonimi comprimari, i restanti musicisti, che pare giochino per l’unico scopo di fornirle l’assist.
(Relapse, 2017)
1.Citios (Digital Bonus Track)
2.Utopia
3.Deny
4.Shame
5.Hierophant
6.Worn
7.Manna
8.Hem