In una Sicilia povera di grandi (e piccole) date in ambito di musica estrema, si presuppone che ogni evento susciti un certo interesse nei fruitori del genere. Inoltre un bill comprendente nomi come Onslaught, Hour Of Penance e The Foreshadowing, oltre che agli opener Rome In Monochrome e Gravestone, non si vedeva da molto tempo nell’isola, oggi orfana anche dei festival open air. Queste le premesse con cui il pubblico catanese si è preparato per la seconda edizione del The Southern Storm Fest, ospitato dal “solito” Barbara – reduce da un corposo restyling al proprio interno, con un’acustica migliorata e una sala più spaziosa.
Anticipiamo sin dalle prima battute che il moto del fest è stato oscillatorio, tra alti e bassi. La serata ha infatti evidenziato alcune criticità che tenteremo di esporre a fine report, prima fra tutte quella, annosa e diffusa, dell’affluenza di pubblico: alle 20.00, orario di previsto inizio dell’evento, le unità all’ingresso del locale si contano sulle dita di una mano…
THE SOUTHERN STORM FEST II
Onslaught + Hour Of Penance + The Foreshadowing + Rome In Monochrome + Gravestone
Barbara, Catania
29/04/2017
GRAVESTONE
…E tali rimangono circa un’ora e mezza dopo, quando – in notevole ritardo rispetto alla tabella di marcia – salgono sul palco i romani Gravestone. Purtroppo un inghippo alla porta ci fa perdere la prima parte della loro breve setlist, ma abbiamo comunque modo di apprezzare la bontà della proposta: death metal dall’impronta melodica, supportato da un interessante uso delle tastiere. Il sound pesca a piene mani dalle atmosfere di inizio anni ’90; proprio in quegli anni la band è nata, per poi sciogliersi nel 1994 e riformarsi in tempi recenti con una nuova formazione. Tra i nuovi ingressi in formazione non possiamo non citare quello di David Folchitto, ubiquo batterista ormai perno di svariate formazioni estreme italiane, che come da copione sfodera un’ottima performance. Nonostante l’esiguità del pubblico, un suono per nulla ottimale e numerosi problemi tecnici (che infastidiranno diversi musicisti nel corso della serata) la band non si scoraggia e gioca al meglio le proprie carte.
ROME IN MONOCHROME
Seguono a ruota i Rome In Monochrome, fautori di un interessante connubio tra post-rock e gothic à la Novembre. La performance del sestetto romano conferma le impressioni di chi scrive in fase d’ascolto dell’EP d’esordio (Karma Anubis, 2015), ovvero che in potenza i Nostri abbiano molto da dire, ma in atto pecchino nell’esprimersi. L’iniziale “Karma Anubis” ne è una prova: i RIM dimostrano un buon bagaglio di idee e anche una certa personalità nel tessere trame malinconiche e, appunto, monocromatiche, ma allo stesso tempo le melodie, sebbene ben scritte e in alcuni casi catchy, non si sviluppano e sembrano perdersi, annacquarsi, in una dilatazione che di certo non giova alla proposta della band. La voce di Valerio Granieri, malgrado sia ben contestualizzata nel genere, risulta monocorde, in più le tre chitarre sono poco sfruttate, mentre potrebbero invece essere un punto di forza, specialmente sul fronte live. Inoltre, ad esclusione di Granieri e del chitarrista Gianluca Lucarini – anche impegnato in riuscitissimi backing scream – gli strumentisti appaiono statici e poco coinvolti, favorendo la disattenzione di buona parte del pubblico che, probabilmente, è già di base poco avvezzo al genere. Bene a metà, dunque, in attesa di una completa maturazione che possa portare i Rome In Monochrome a palesare le qualità che dimostrano comunque di possedere.
THE FORESHADOWING
Quando i The Foreshadowing imbracciano gli strumenti la platea è lievemente rinforzata ma ancora esigua, e considerando che gli orologi sfiorano le 22.30 non si tratta di un dato rincuorante. Il sestetto porta con sé sul palco tutti i dieci anni di esperienza e dà forma nel migliore dei modi al proprio gothic/doom metal elegante e melodico. La voce di Marco Benevento è in forma smagliante e non perde un’oncia del calore e della teatralità riscontrabili su disco, gli strumentisti dal canto loro manifestano la pulizia sonora e la tenuta di palco dei migliori. Menzione d’onore per Giuseppe Orlando, che dietro le pelli dei Novembre ha scritto un pezzo di storia del metal tricolore e torna oggi nella propria città natale: il suo drumming preciso, creativo ma mai invadente è senz’altro un importante valore aggiunto. La scaletta verte su diversi episodi della carriera della band, dalla nuova e bellissima “Two Horizons” fino a “Departure”, dall’album d’esordio Days Of Nothing; brani che purtroppo sembrano cadere nel vuoto, poiché l’audience non li conosce e, orientata verso le sonorità più estreme delle band che seguiranno, è disattenta e si disperde fra il fondo del locale e l’area esterna. Ciò non sembra infastidire la band, la cui pazienza è però messa a dura prova da un insufficiente operato dei tecnici audio/luci, fra suoni traballanti e luci di scena inadeguate che lasciano spesso i musicisti al buio, e soprattutto dal ritardo sul running order che li obbliga a ridurre il tempo a disposizione della metà, ovvero di trenta minuti. Ci rassegniamo, dunque, alle vicissitudini organizzative e speriamo di ritrovare presto i The Foreshadowing in una situazione più consona al proprio sound e con una scaletta più corposa.
HOUR OF PENANCE
Il cambio palco sancisce anche un deciso cambio di rotta nel mood della serata: gli Hour Of Penance sono ormai dei pesi massimi del death metal europeo e non hanno bisogno di alcuna presentazione. Il loro show, come era lecito aspettarsi, è epico e guerresco come un assalto all’arma bianca, pienamente in linea con le tematiche dei brani. I settaggi, lievemente migliori rispetto agli act precedenti, conferiscono una certa importanza al basso di Marco “Cinghio” Mastrobuono – il quale suona, peraltro, esclusivamente in fingerstyle – e ciò contribuisce a ricreare anche sul palco il groove che rende gli HoP riconoscibili fra tante altre compagini. Il pubblico, nel frattempo, è aumentato fino a riempire quasi del tutto la sala, anche se, ad esclusione dei soliti irriducibili headbangers di toppe vestiti delle prime file, non sembra del tutto coinvolto nello show. Lo stupore è in ogni caso palese quando, dopo un rapido susseguirsi di bordate come le nuove “XXI Century Imperial Crusade” e “Cast The First Stone” e il classico “Sedition Through Scorn”, i quattro chiudono il proprio set, con un’esibizione che dunque, ad una rapida stima, è durata in totale meno di trenta minuti. Ci rendiamo conto che i tagli sono necessari per garantire agli headliner una performance completa, ma vedere una band di alto livello costretta a tempi serrati lascia un po’ l’amaro in bocca.
ONSLAUGHT
Dopo mezz’ora abbondante di linecheck gli Onslaught rovesciano sui presenti il solito sferragliante tripudio di riff taglienti, vocals acide e skank beat, ovvero il più canonico e furioso old school thrash metal. Anche le fisicità dei cinque di Bristol sono piuttosto old school, ma i capelli bianchi denotano anche un’esperienza trentennale che sta alla base del suonare in un certo modo. La precisione dei Nostri è infatti più svizzera che inglese, grazie ad una sezione ritmica poderosa guidata da Michael Hourihan, che anche se nascosto dai voluminosi power tom sembra essere proprio un personaggio singolare. Sy Keeler, poi, dietro al microfono è impeccabile e le sue corde vocali non accennano a sentire il peso degli anni e degli acuti. Chiaramente da una band del genere non c’è da aspettarsi nulla di innovativo, e i brani sono ancorati a certi schemi paradigmatici. C’è però una linea che divide le comparse dai protagonisti, e gli Onslaught rientrano senza dubbio alcuno nella seconda categoria. Ciò è evidente dalle sinergie dimostrate on stage, palesi anche agli occhi e alle orecchie di chi non fruisce solitamente di certo metal. Nonostante abbiano qualche primavera dietro le spalle, la loro attitudine è quella dei ventenni (o meglio, quella che si presuppone abbiano i ventenni) e portano a casa uno show che diverte il pubblico, che si lascia andare al mosh pit di rito, ma anche, visibilmente, loro stessi. Nel loro caso, inoltre, il bilanciamento dei suoni pare ottimale, ad esclusione di alcuni problemi sugli assoli che comunque non scalfiscono più di tanto la performance. In sintesi, se magari non resterà un live da registrare negli annali, i circa ottanta minuti a loro disposizione passano in scioltezza, senza sorprese e senza delusioni, con il piacere sensibile di vedere in azione una band storica.
Giunge, infine, il momento di tirare le somme. La poca affluenza, come anticipato in apertura, non è un argomento nuovo nelle discussioni tra musicisti e appassionati, ma in questa occasione pare opportuno spendere qualche parola in merito. Il pubblico siciliano non è bombardato da live, anzi, per essere chiari, un evento di questo tipo va in scena, nel migliore degli scenari possibili, due volte all’anno. Non si presenta, dunque, il problema del dover centellinare le uscite (biglietti e spostamenti) per le comprensibili ragioni economiche. Vogliamo evitare di fare i conti in tasca a chiunque, ma non è assurdo chiedere a chi è appassionato di determinata musica di spendere qualcosa per – ci si perdoni la locuzione abusata – supportare la propria scena. E’ vero che i venti euro del biglietto d’ingresso rappresentano una cifra più alta rispetto alla media dei live in zona, ma allo stesso tempo non sembra una richiesta esosa se comparata ai nomi di spessore presenti nel bill. Ciò che invece appariva inusuale sin dalle prime battute è la scelta di non inserire alcun nome locale, che avrebbe richiamato più pubblico rappresentando, in più, dei costi minori. Non si tratta, sia chiaro, di un giudizio negativo sui piacevoli Gravestone e Rome In Monochrome, ma di una considerazione prettamente organizzativa, dato inoltre che la Sicilia non è avara di ottimi act che chiedono, e meritano, di esibirsi su certi palchi. Ad ogni modo, se fino a sera inoltrata i presenti in sala si assestano, ad occhio, sulle sessanta unità, nonostante il ritardo negli orari che avrebbe potuto garantire più affluenza, c’è qualche meccanismo che non sta funzionando per il meglio. Le leggerezze organizzative possono servire da tesoro per il futuro, perché sono in qualche modo frutto dell’impegno e della passione di gente che ci crede davvero. Ma il metallaro, oggi, quanto ci crede?
Si ringrazia Giuseppe Picciotto per gli scatti.