Il progetto dei Voland, inteso nel suo insieme, come unione di suggestioni storiche, artistiche e musicali, ci ha intrigato a tal punto da voler associare alla recensione del loro EP Voland 2, pubblicata qualche giorno fa, un’intervista al duo bergamasco. In questo rapido scambio di battute chiariremo alcuni dettagli sul concept della band, il rapporto con le etichette che hanno prodotto l’EP e il punto di vista circa la cultura russa, fulcro tematico delle liriche e dell’immaginario dei Nostri.
Benvenuti su Grind On The Road. Come nasce il progetto Voland e con quali intenzioni?
Voland nasce come un progetto in studio per comporre black metal. Si evolvette sin da subito in black metal aperto a contaminazioni sinfoniche, atmosferiche, folk, con impostazione narrativa storica e forse quasi teatrale.
Nove anni separano Voland 2 dall’esordio Voland. Questo distacco da cosa è stato causato? Ha apportato dei benefici alla vostra produzione?
Per molto tempo è stata una questione logistica dettata da varie situazioni di natura personale; il tempo ci ha dato anche modo di evolvere musicalmente verso ispirazioni più orchestrali ed elaborate. Voland 2 è arrivato quando abbiamo capito di avere ancora qualcosa da dire e ci sentivamo sicuri della validità del materiale nuovo.
A cosa si deve la scelta di pubblicare un altro EP anziché un full length?
Il formato EP ti permette di concentrarti su pochi brani a favore della qualità di ognuno di essi. Anche concettualmente trovo sia più efficiente raccogliere il messaggio in meno pezzi ma far valere davvero ogni singola parola pronunciata.
Voland 2 è stato stampato da Masked Dead Records e Xenoglossy Records a distanza di alcuni mesi dalla sua prima pubblicazione in digitale. Come siete entrati in contatto con queste etichette e cosa vi ha portato a sceglierle? Come mai in prima battuta avevate optato per l’autoproduzione?
L’autoproduzione è libertà assoluta e sfruttamento autonomo dei mezzi moderni della rete, un progetto underground come il nostro non appartiene ai grandi circoli di distribuzione e va bene così. E’ più corretto dire che sono state la Masked Dead e la Xenoglossy a scegliere noi, accogliendoci tra le loro esclusive promozioni. Il lavoro che hanno svolto per pubblicizzare Voland è fenomenale, ampliando notevolmente la portata che avevamo raggiunto in autonomia.
In genere sembra banale discutere circa le influenze musicali di un disco, ma nel vostro caso il quesito comporta risvolti interessanti, dato che il suono di Voland 2 è assolutamente personale. Chi vi ha ispirati maggiormente, in particolar modo dal punto di vista della musica classica d’età rivoluzionaria?
Stimiamo molto i grandi compositori della musica classica russa. Ugualmente ci sentiamo ispirati dalle produzioni popolari russe e sovietiche, dal folk alle fanfare, l’intero repertorio del coro dell’Armata Rossa.
“Dubina” contiene riferimenti diretti a due brani della tradizione rivoluzionaria, “Dubinuška” e “Der heimliche Aufmarsch”. Come mai avete scelto proprio questi due esempi?
Sono due grandi canzoni, sia musicalmente sia per il loro significato simbolico. “Dubinuška” è un omaggio alle influenze che menzionavo sopra, un brano popolare ottocentesco reso famoso dall’interpretazione del baritono russo Fëdor Šaljapin e poi eletto a canto di protesta nel primo periodo della rivoluzione russa. L’omaggio a “Der heimliche Aufmarsch” è nato dalla voglia di esulare temporaneamente dalla sfera russa per evocare un’altra grande tradizione di ispirazione artistica rivoluzionaria.
A cosa è dovuta la scelta di alternare il russo all’italiano? L’inglese avrebbe generato forse un certo stridore, o avete preferito la nostra lingua per avere maggiore capacità espressiva?
Oltre alla questione dell’espressività l’italiano è stato scelto come sorta di voce narrante “neutra”, mentre gli inserti in russo hanno una funzione più teatrale, sono le voci dirette delle storie raccontate nelle canzoni. Forse avremmo potuto scegliere l’inglese per la stesso ruolo narrante dell’italiano, ma non vedo per quale motivo, dove sta scritto che il rock/metal bisogno farlo per forza in inglese?
Entrambi i membri dei Voland sono impegnati anche nei Varatrum. Pare che vi siate scambiati i ruoli: Rimmon, voce dei Voland, è impegnato solo alla chitarra nei Varatrum, mentre Haiwas, che qui suona tutti gli strumenti ma non canta, nell’altra band ha il ruolo di vocalist. Ci spiegate come vi siete divisi i compiti?
Sì, certamente è anche per desiderio di variare un po’. Buona parte del processo di composizione è condiviso, Haiwas fa valere di più il suo talento di arrangiatore della strumentazione digitale mentre Rimmon si occupa dei testi e del concept.
Come mai, a vostro avviso, la storia russa ha attecchito ben poco nei contesti metal?
Credo che si tratti fondamentalmente di scarsa conoscenza della materia. Penso che il tipo di metal che suoniamo noi abbia una storia principalmente europea, occidentale e settentrionale, paesi dove comunemente si conosce poco e superficialmente l’est-europa. E’ un peccato perché il risultato è, ad esempio, una scena metal infestata dalla mitologia norrena e che si lascia sfuggire uno stuolo di narrazioni perfette per l’interpretazione musicale estrema.
Spesso lo sguardo “occidentale”, per dirlo alla russa, nei confronti della nazione e della sua storia è affascinato ma distaccato, quasi che il suo passato monolitico e pieno di vicende storicamente cruciali ci spaventi, o forse non ce ne sentiamo coinvolti in maniera diretta. Siete d’accordo con questa riflessione? C’è necessità di un’analisi più limpida e scevra da risvolti secondari nei confronti della società e della cultura russa?
Mi riaggancio al discorso di prima, penso che ci sia diffusa conoscenza parziale e prevenuta di quel mondo, questo è dovuto in buona parte al clima della passata guerra fredda che ha fortemente condizionato l’immaginario pubblico, nella maggior parte dei casi contribuendo a una narrazione distorta in senso negativo per fini politici. Fortunatamente viviamo un’epoca dell’informazione che ci permette di attingere a svariate fonti, basta volerlo.
Concludendo l’intervista, mi ricollego alla chiosa adottata in sede di recensione, che riprendeva una delle frasi chiave de Il Maestro e Margherita. Secondo voi è vero che “i manoscritti non bruciano”? C’è una forma di eternizzazione nell’operato artistico di qualsivoglia forma, capace di sopravvivere a censura, oblio e cancellazione?
Credo che sia ciò che ogni artista desideri di più nel profondo: dare in lascito qualcosa di duraturo, raggiungere individui sconosciuti al di là dei limiti fisici. Se noi non possiamo essere immortali, è bello pensare che almeno la nostra arte, in qualche modo, ci sopravviverà.