Diciotto anni di carriera, sette album in studio, diversi tour attorno al globo e soprattutto un’identità sonora ed estetica fortissima. Questo è il bagaglio con cui i The Ocean si affacciano alla loro ottava produzione Phanerozoic I: Palaeozoic, dopo un Pelagial (2013) che li ha posti fra i nomi di punta del panorama post-metal europeo. Eguagliare il suddetto, acclamatissimo album, non era affatto un’impresa semplice; il collettivo tedesco ha dunque arginato l’ostacolo come meglio sa fare: mutando, rinnovandosi, in un succedersi di nuovi volti e risvolti parallelo all’avvicendarsi delle ere geologiche. In questo caso era persino più facile ipotizzare un rinnovamento, dati i cinque anni trascorsi dall’uscita precedente e un ulteriore cambio di line-up che ha visto l’ingresso di Paul Seidel e Mattias Hagerstrand alla sezione ritmica e la presenza di un’unica chitarra (non accadeva dai tempi di Aeolian, 2005), quella del mastermind e autore Robin Staps, unico superstite dalla primissima formazione. Insomma, sarebbe pleonastico aggiungere che le aspettative per quest’album erano altissime, e ci sentiamo di affermare già in apertura che sono state ampiamente soddisfatte.
Il clima di attesa è stato fomentato dal fatto che la band è stata impegnata, proprio nell’anno in corso, nella riedizione di Precambrian in occasione del decennale dell’uscita, e nella sua esecuzione integrale in un tour europeo. Citiamo il fatto non a caso: Phanerozoic I: Palaeozoic suona come un’emanazione dell’album che ha rappresentato il salto di qualità del collettivo, da più punti di vista. In primis quello tematico: dopo aver scrutato le sfere celesti in Anthropocentric ed Heliocentric (2010), e dopo aver sondato gli abissi oceanici in Pelagial, i Nostri danno un seguito al concept paleo-geologico iniziato nel 2007, esaminando, dopo il Precambriano, l’altro eone in cui è suddivisa la vita terrestre, il Fanerozoico. In un sistema che non lascia al caso nemmeno il minimo dettaglio, la band ha dedicato questa prima uscita a una delle tre ere che compongono in Fanerozoico, ovvero il Paleozoico – aprendo così a dei prossimi capitoli (Mesozoico e Cenozoico) – e, ancora una volta, nominando ognuna delle tracce come uno dei sei periodi in cui è ulteriormente suddiviso l’eone. Uno sguardo più attento, però, riconoscerà che in realtà questo tema è una struttura, una cornice atta a parlare d’altro: dalla ciclicità della vita e il ruolo dell’uomo in questo eterno ritorno (“Cambrian II: Eternal Recurrence”) all’egoismo e l’incomunicabilità (“Ordovicium: The Glaciation of Gondwana”), ma c’è spazio per episodi ancor più introspettivi in cui la band preferisce “io” e “noi” rispetto a considerazioni generali e univoche, toccando momenti di grande densità lirica che certamente meritano una particolare attenzione. È già un bel bailamme di spunti, concatenazioni e metafore, e ancora non siamo arrivati alla musica in senso stretto.
Anche da questo punto di vista Phanerozoic I: Palaeozoic palesa un forte debito nei confronti di Precambrian – non è un caso che l’intro “The Cambrian Explosion” si apra con la medesima melodia di “Cryogenian”, che chiudeva l’album del 2007. Con le dovute levigature, infatti, probabilmente ereditate delle architetture prog di Pelagial, il songwriting evidenzia una quadratura e una concisione maggiori rispetto al passato, in particolar modo nel guitarwork di Staps. Semplificando, la band rivolge maggiore attenzione alle atmosfere e alla forma-canzone, costruendo brani che si diramano su quei riff grossi ed epici che costituiscono il marchio di fabbrica del proprio suono, a cui si sovrappongono di tanto in tanto un pianoforte, degli archi e dei fiati (nell’elaborata “Silurian: Age of Sea Scorpions”) e anche dei synth, vera novità dell’album dal punto di vista strumentale, che ci ricordano da vicino i Cult Of Luna più massicci (“Cambrian II: Eternal Recurrence”). Più post che prog, dunque, e una vena apocalittica e tragica che ben si sposa con le liriche, in quello che suona come un ritorno alle origini (curioso il parallelismo con le tematiche) filtrato da anni di esperienza e da un songwriting senz’altro più maturo. A maturare, in maniera oltremodo evidente, è anche la voce di Loïc Rossetti, che sfrutta l’appeal più semplice e diretto dei brani per ritagliarsi un ruolo di assoluto protagonista: ancora una volta si divide tra un cantato sporco, aggressivo ma intelligibile, e un pulito forse meno etereo che in passato ma decisamente convincente, che esplora soluzioni nuove e poco prevedibili (“Ordovicium: The Glaciation of Gondwana”, “Permian: The Great Dying”). Interessante, ma realizzato a metà, è anche il mélange vocale in “Devonian: Nascent” tra Rossetti e l’ospite Jonas Renkse. L’oscuro svedese ha una voce che placherebbe conflitti bellici e, con una performance delle sue, arricchisce in maniera sensibile un brano che è praticamente un outtake dei Katatonia. O per lo meno, lo è nella prima metà dei suoi undici minuti di durata, perché poi i The Ocean si ricordano di essere i The Ocean, invero in maniera abbastanza scontata. Sarebbe stato più stuzzicante tentare di fondere i due mondi anziché unire un po’ alla buona due brani diversi, ma si tratta dell’unico scivolone in un album che di difetti pare veramente non averne.
Come è proprio delle grandi band, quindi, i The Ocean riescono ancora una volta ad essere sé stessi senza suonare sempre uguali a sé stessi, ovvero sviluppando e crescendo dove e quando serve, mantenendo allo stesso tempo tutti i punti cardine che li hanno resi ciò che sono. E, come è proprio delle grandi band, hanno curato l’album in ogni minimo dettaglio, dalla produzione, di altissimo livello, al comparto grafico, specie nell’esclusivo boxed set; dai testi, con la loro profondità e ricchezza e tutta l’impalcatura tematica, alla scrittura efficace, oggi sicuramente più asciutta ma di grande spessore, che riesce ad emozionare senza troppi giri di parole. Phanerozoic I: Palaeozoic è dunque un lavoro completo, dalle svariate chiavi di lettura, che ad ogni ascolto lascia qualcosa in più: siamo sicuri che sarà capace di preservarsi e resistere al susseguirsi delle stagioni. Tra le migliori uscite dell’anno, e forse degli anni.
(Metal Blade Records, Pelagic Records, 2018)
1. The Cambrian Explosion
2. Cambrian II: Eternal Recurrence
3. Ordovicium: The Glaciation of Gondwana
4. Silurian: Age of Sea Scorpions
5. Devonian: Nascent
6. The Carboniferous Rainforest Collapse
7. Permian: The Great Dying