Ho scoperto i La Dispute quattro anni fa, in maniera totalmente casuale, grazie alla canzone “Such Small Hands”, una delle più famose del gruppo. Incuriosita, andai ad ascoltare la loro (intera) discografia, completamente rapita dalla loro espressività musicale e narrativa. Inutile dire che, da allora, essi sono una delle colonne sonore che mi accompagnano nei tragitti casa-università e nelle notti insonni. Quale migliore occasione per dedicare loro delle parole se non il decimo anniversario dalla pubblicazione di Somewhere At The Bottom Of The River Between Vega And Altair? Questo è il loro debut album ed anche l’album che li ha consacrati e resi immortali nel panorama post-hardcore e screamo.
I La Dispute sono un gruppo statunitense, formatosi nel 2004, che, dopo una serie di concerti con band locali del Michigan, pubblicò il primo EP nel 2008 e pochi mesi dopo il primo album. Con una serie di EP e due Split all’attivo (uno con i Touché Amoré, un gruppo post-hc/screamo attivo da differenti anni ed uno con Koji, musicista rock), tre sono i full length che hanno segnato la carriera del gruppo: oltre al già citato, vi sono Wildlife e Rooms Of The House. Descrivere questi due album richiederebbe uno spazio a sé dal momento che si presentano strutturalmente molto complessi, poiché entrambi divisi in diverse sezioni, ognuna delle quali tratta uno specifico tema. In particolare, la struttura di Wildlife è ispirata a Fuoco pallido, un romanzo di Nabokov, mentre Rooms Of The House, dai toni più intimi, tratta della storia di una famiglia narrata attraverso le mura della loro casa. Sono stati album elogiati dalla critica, amati dai fan e hanno scalato persino le classifiche più commerciali, come la Billboard 200. L’album a cui, tuttavia, sono più affezionata è Somewhere At The Bottom Of The River Between Vega And Altair per una serie di ragioni che analizzerò di seguito.
Innanzitutto, bisogna dare conto di alcune note di carattere più tecnico. In questi giorni è uscita una ristampa dell’album via No Sleep Records, con un artwork targato Corey Purvis, mentre i ritocchi ai file originali sono stati davvero minimi: una ri-amplificazione delle chitarre, un nuovo mixaggio di Dave Schiffman ed infine masterizzato da Emily Lazar (Coldplay, Morrissey e Beck).
Non si ha a che fare con un concept album, benché possa sembrarlo data la compattezza e l’articolazione che caratterizzano le tracce. Solo tre canzoni, infatti, sono tra di esse collegate: “New Storms For Old Lovers”, “Last Blues For Bloody Knuckles” e “Sad Prayers For Guilty Bodies”. La vicenda che sta dietro a queste tre tracce è peculiare. Jordan, il cantante e scrittore del gruppo, creò questo trittico quando scoprì che i due coniugi di due famiglie amiche si stavano separando, la ragione di queste separazioni fu il fatto che il marito di una delle due cominciò a frequentare la moglie dell’altra. Così, la prima canzone è un dialogo tra il marito tradito e l’amante della moglie, al quale cerca di esprimere la sua sofferenza, il dolore di un uomo che “cerca solamente di tenere unita la sua famiglia”, mentre dall’altra parte vi siede una statua silenziosa, che pare non avere alcun rimorso delle proprie azioni. La seconda è invece un dialogo tra il marito tradito e la moglie: egli ricorda lei la promessa che si erano fatti e l’impegno di mantenerla finché morte non li avrebbe separati, mentre la moglie risponde che “non si può fermare il vento che soffia”, così come “l’amore a volte fallisce senza alcuna ragione”. L’ultima è un dialogo tra i due amanti, in cui i due confessano l’infelicità nei rispettivi matrimoni, pregando per il perdono dei figli, poiché in fondo “cos’è l’amore senza uno scopo e cos’è uno scopo senza l’amore?”. Un ulteriore intreccio si ha tra la prima traccia dell’album “Such Small Hands” e l’ultima, “Nobody, Not Even The Rain” che insieme costituiscono un verso del poeta E. E. Cummings: “Nobody, not even the rain / has such small hands“.
“Said The King To The River” fa riferimento ad un mito asiatico che narra di una storia d’amore tra una principessa ed un giovane pastore. Alla loro relazione, tuttavia, era contrario il re – e padre – della ragazza, poiché ella, che prima lavorava il telaio tutti i giorni, aveva iniziato a trascurare il lavoro, al punto che il padre chiese al fiume di straripare affinché i due giovani non potessero più vedersi. I due, tra l’altro, sono Altair e Vega, due stelle, mentre il fiume è niente meno che la Via Lattea: così svelato anche il significato del titolo dell’album. Meritano di essere nominate, infine, “The Last Lost Continent” e “Fall Down, Never Get Back Up Again”. La prima poiché, pur essendo una traccia di ben dodici minuti (la più lunga dell’album), è estremamente versatile a livello musicale e narrativo, alternando momenti più cupi e grintosi ad altri più calmi e carichi di attesa, narrando inoltre di uno scontro a fuoco in una stazione di benzina in cui un amico del batterista del gruppo è stato ucciso. La seconda, invece, è a mio avviso la canzone più emozionante della loro discografia, non solamente per le lyrics (oramai più che osannate), quanto anche e soprattutto per la parte instrumental che si rivela essere di una dolcezza incredibile, sonorità che cullano e tranquillizzano un’anima in pena. Particolarità di questa canzone sono l’uso del suono delle gocce di pioggia sul tetto (“[…] Now listen to the rain upon the rooftop / But the wind picked up”) come sorta di cesura tra la prima parte della canzone e la seconda, che assume un ritmo più melodico e dolce. Non mancano, tuttavia, anche canzoni prettamente hardcore, che sfiorano il noise – come nel caso di “The Castle Builders”, o più ruvidi: “Damaged Goods” e “Bury Your Flames” sono degli esempi.
Vorrei poter scrivere una parola per tutte le altre canzoni poiché ognuna di esse merita una menzione a parte, ma questo articolo risulterebbe eccessivamente prolisso. Invito, per ciò, coloro che abbiano letto e si siano sentiti ispirati, ad ascoltare tutto l’album e leggere i testi. Questi ultimi, infatti, mescolano il mito con la realtà (come nel caso di “Said The King To The River”, dove affianco al mito vi è il ricordo di una storia d’amore di Jordan con una ragazza cui gli era difficile essere vicini causa numerosi ostacoli, come nel caso sopra citato di “The Last Lost Continent”), esempi di vita vissuta che vogliono porsi come una possibile soluzione, un aiuto concreto. Una narrazione fluida – non a caso sono ricorrenti parole che fanno riferimento agli elementi dell’acqua e dell’aria –, lirica ed aulica, che si incastra alla perfezione con la composizione musicale sempre oscillante fra momenti tesi e spezzati ed altri commossi e vibranti. Lo screamo di Jordan è graffiante, incisivo, senza mai risultare pesante, poiché capace di alternarsi con momenti parlati (come in “Andria”) e con la musica, culla delle parole, ma anche antro in cui ripararsi da esse. Per quanto riguarda gli strumenti è impressionante come ognuno abbia la sua parte, il proprio suono inconfondibile, pulito, senza sovrapposizioni o sbavature. Non si può parlare di innovatività dal punto di vista compositivo, dal momento che il gruppo non apporta stravolgimenti al genere screamo, piuttosto essi si contraddistinguono per la magistrale esecuzione. Particolare però l’utilizzo del glockenspiel: uno strumento a percussione diretta che produce il suono delle campane, ben udibile in diverse canzoni dei loro vari album.
I La Dispute hanno creato un’opera immortale, poiché, nonostante siano trascorsi dieci anni, questo album continua a vivere e trasmettere emozioni e contenuti con una profondità che è difficile immaginare si possa ottenere da qualsiasi musicista nel panorama post-hardcore (sebbene, si sa, per questo genere la poesia è uno dei pilastri fondamentali). Somewhere At The Bottom Of The River Between Vega And Altair si pone come modello alla “letteratura” a venire, ma si inserisce anche in una tradizione musicale composta da gruppi come Suis La Lune, Raein e Saetia. Equilibrio è la parola chiave di questo album. Nonostante gli intrecci sia narrativi sia strumentali creino un caleidoscopio, sfumature che donano unicità ad ogni traccia, ogni strumento ed ogni parola sono tasselli che compongono un fine equilibrio compositivo.
(No Sleep Records, 2018)
1. Such Small Hands
2. Said The King To The River
3. New Storms For Old Lovers
4. Damaged Goods
5. Fall Down, Never Get Back Up Again
6. Bury Your Flame
7. Last Blues For Bloody Knuckles
8. The Castle Builders
9. Andria
10. Than Again, Maybe You Were Right
11. Sad Prayers For Guilty Bodies
12. The Last Lost Continent
13. Nobody, Not Even The Rain