I Wang Wen nella loro madrepatria sono considerati come uno dei gruppi più importanti, e non a caso ogni tour fanno sold out nella lontana terra d’oriente. Tante sono state le uscite discografiche del combo cinese che torna più attivo che mai con il nuovo disco intitolato Invisible City. Chi magari mastica parecchio il post-rock molto probabilmente li conosce, nonostante in genere le band orientali non abbiano vita facile in Europa a livello di popolarità.
Andando al nocciolo della questione, l’album fresco di stampa dimostra ancora una volta la decisa e meticolosa preparazione tecnica a cui si dedicano i musicisti, dediti costantemente ad una perfezione assoluta e ossessionata a cui forse non giungeranno mai. Il punto però è che ciò non basta e se tutto dal lato “esterno” risulta privo di difetti ciò non si può dire delle canzoni vere e proprie. In realtà non è tutto così disastroso, o meglio, non ci si aspetti un lavoro brutto, anzi, ma troppo pretenzioso. L’iniziale “Daybreak” ad esempio butta dentro di tutto: atmosfere da colonna sonora alla Tim Burton, squarci alla Morricone, noise, atmosfere disturbanti, soavi saltelli di tastiera, tocchi vintage anni ’80, rumori vari… Ma nulla emerge e non c’è mai un’esplosione che riesca a far sobbalzare o emozionare l’ascoltatore. C’è un continuo (e non è a caso) seguire la stessa linea senza mai allontanarsi e quando si cerca di variare non c’è mai la scintilla necessaria (“Stone Scissors” con tempi più rarefatti e vocals robotiche). Se le prime tracce delineano comunque un certo livello qualitativo via via con il proseguo dell’ascolto l’interessa cala, tutto si fa sempre più minimalista e confuso (“Lost in Train Station”), moscio e fin troppo scontato seppur con buone idee melodiche (“Solo Dance” e “Bamboo Crane”) per poi arenarsi con la stanca e soporifera “Silenced Dalian” che fa percepire un senso di carenza di idee fin troppo plateale. Dovrebbe esserci magia che faccia sognare ad occhi aperti e che allo stesso tempo possieda quella dura epicità che mantenga l’attenzione dell’ascoltatore, ma ciò emerge solo in un paio di episodi (“Mail From the River”) dalle costruzioni oniriche grazie ai giri melodici chitarra/tastiera davvero ben congegnate ed anche grazie all’uso di ottoni ed alla evocativa outro che accarezza l’anima.
L’album si risolve con un colpo ampiamente mancato che sa troppo di mestiere e che difficilmente farà breccia data una concorrenza decisamente più abile. Un disco eccessivamente lungo che finisce per addormentare nel peggiore dei modi. Peccato!
(Pelagic Records, 2018)
1. Daybreak
2. Stone Scissors
3. Mail from the River
4. Lost in Train Station
5. Solo Dance
6. Bamboo Crane
7. Silenced Dalian
8. Outro