Non si può sfuggire alla potenza espressiva dei Gerda una volta che si entra in contatto con la loro musica. Black Queer è un album tagliente, diretto e sincero. Abbiamo colto l’occasione di intervistare una delle band più importanti del panorama musicale hc/punk italiano e di chiedere loro chiarimenti e opinioni sull’album, ma anche sulla tradizione musicale di cui fanno parte e in merito alla scena DIY del nostro paese. Buona lettura!
Benvenuti su GOTR. Innanzitutto, vorrei chiedervi: cosa differenzia, a vostra detta, Black Queer dai vostri precedenti album?
È il disco in cui abbiamo cercato di rendere immediato e aperto a tutti il nostro discorso musicale, in cui abbiamo messo in discussione la nostra scrittura, da un certo punto di vista lo abbiamo sempre fatto, ma questa volta la sfida è stata cercare di liberarsi il più possibile di tutti i preconcetti e gli stilemi su cui si è costruito un certo linguaggio musicale, con il suo sistema di codici e riferimenti interni. Abbiamo cercato di raggiungere la nostra purezza. Non è che ci siamo riusciti, Black Queer non è un disco perfetto, ma è un disco sincero, in cui non ci siamo nascosti dietro alcun lessico già disponibile. Black Queer è il suono dell’autodistruzione del nostro sound e della nostra tecnica di scrittura, è il suono del terremoto che abbatte la città dove hai vissuto fino a questo momento. Quindi a nostro parere è un disco più semplice, più immediato e più radicale.
Il tema centrale di questo album è la perdita. Cosa è accaduto negli ultimi anni e cosa vi ha ispirati maggiormente nel processo creativo di Black Queer?
Scusami, è vero che la morte e la perdita sono presenti, ma non direi che costituiscono il tema centrale dell’album. A volte quando vieni ferito talmente in profondità, quando senti di essere rifiutato, quando disperi di riuscire ad armonizzarti con ciò che sta fuori di te, ti senti perduto, ti abbandoni all’ordine ed alla legge del rifiuto, dell’espulsione, ti togli la vita, oppure semplicemente ti sottrai alla vita, intesa nel senso di vita sociale.
Black Queer non è il pianto per un suicidio, è la scoperta e la proposta di un’ alternativa, è un’istigazione ad impugnare la causa più profonda di quel rifiuto e di quell’espulsione e ad affermare con tutta la forza la tua differenza, la tua stranezza. Nel titolo ci siamo serviti di due categorie intimamente e profondamente disturbanti a livello sociale e le abbiamo sovrapposte. E questa intersezione è un’ affermazione e una rivendicazione.
Black Queer è l’invito a reagire, ad essere diversi, a non nascondersi più, a lottare contro la (anti)cultura oggi dominante per cui ciò che è indefinibile, diverso o problematico viene rifiutato ed espulso.
Come mai avete preso la decisione di inserire all’interno dell’album una cover (“Theme”) dei P.I.L?
Le cover sono in realtà due, la prima è un pezzo che forse conoscono in pochi, “Figlia” dei Vel, una band fondamentale per la crescita musicale ed umana di noi Gerda e forse della maggior parte delle band nate nella provincia di Ancona dalla fine degli anni novanta fino ad oggi.
Perché abbiamo deciso di inserire una cover dei PIL, non c’è molto da dire, è una non-canzone che amiamo e che ha il potere di ispirarci, è uno spazio che possiamo abitare, portarci dentro tutto ciò che siamo e togliere quello che non ci serve, senza che però questo gli faccia perdere la sua essenza, perché ha un’identità emotiva e stilistica fortissima e allo stesso tempo semplicissima.
Nota storica e autobiografica: i Sex Pistols hanno significato tantissimo per tutti noi quattro, e i PIL ne rappresentano l’evoluzione più bella e imprevedibile, l’unica possibile, sicuramente la più libera, la più radicale e la più coraggiosa, “Theme” nel 1978 apriva il primo album post-punk della storia.
Risulta che in questi venti anni non abbiate mai subito cambi di formazione. Qual è il segreto di questa lunga e proficua collaborazione tra di voi?
Senti, credo che non sarebbe possibile sostituire nessuno di noi quattro, significherebbe perdere la band.
Non si può dire che fossimo già tutti grandi amici quando abbiamo iniziato a suonare insieme, alcuni di noi si conoscevano appena, non abbiamo iniziato a suonare insieme perché eravamo quattro amici con la passione comune del punk e della musica rumorosa in generale, ma perché ognuno di noi quattro voleva suonare in una band e in qualche modo ha iniziato a cercare gli altri, eravamo molto giovani, 13 e 16 anni. Si può dire invece che è stata la band a far nascere e crescere quell’amicizia, poi è stata quell’amicizia a tenere insieme la band. Ora abbiamo una band e un’amicizia che durano entrambe da 21 anni. Bello no?
Pare di capire che attribuite molta importanza al legame con la tradizione musicale di cui sentite di fare parte. Volete esplicitare come avete trovato il vostro “giusto” percorso, sia come singoli membri sia come gruppo?
Nelle note di pubblicazione a Black Queer c’è un lungo elenco di generi e sottogeneri musicali che secondo noi sono a vario titolo in contatto con la nostra musica, musiche che abbiamo ascoltato e che hanno ascoltato e ascoltano molti di quelli che vengono ai nostri concerti, noi siamo consapevoli di appartenere ad una tradizione, che esiste prima di noi e che continuerà ad esistere dopo, non ci raccontiamo la storia della band nata dal nulla, che crea soltanto invenzioni completamente nuove e senza precedenti. Sappiamo che ogni atto creativo è una sintesi inestricabile di ripetizione e invenzione, creare è mettere in relazione vecchie idee con nuove idee, a volte associarle e metterle una sull’altra per analogia, altre volte invece affiancarle a forza per mettere in evidenza quanto siano in contrasto, quanta violenza generino, quanto il nuovo che si sta introducendo sia in grado di distruggere e negare il vecchio. In ogni discorso che fai in mezzo a parole nuove devi mettere anche vecchie parole che gli altri possano comprendere, che gli altri abbiano già sentito e che abbiano a loro volta utilizzato, parole a cui attribuiscano un significato, sarà il significato di quelle parole conosciute a indicare una strada verso il possibile significato delle nuove parole.
Detto ciò, non c’è una decisione, non si stabilisce da che parte stare, tutto questo viene vissuto e prodotto in maniera istintiva, molto naturalmente. Sia a livello di band che a livello individuale. Ognuno di noi quattro ha un approccio radicale e intimo con il proprio strumento, credo che nessuno di noi possa propriamente definirsi tecnico o virtuoso, ognuno di noi ha tracciato il proprio modo di suonare come parte di questa band, e allo stesso tempo il percorso della band è il risultato di quelle quattro diverse traiettorie. Non tutte le band sono così, ma sappiamo che ce ne sono state e ce ne sono altre come noi.
Un ulteriore elemento di continuità è il vostro rapporto con la Shove e la Wallace Records, tra le altre label che vi hanno accompagnato nel vostro percorso musicale. Vi va di parlarne?
Shove e Wallace Records, come anche la maggior parte delle realtà discografiche underground sono in realtà due persone, Manuel e Mirko, due persone che non solo hanno una fortissima passione per la musica ma anche una forte vocazione e attitudine all’azione, per entrambi abbiamo grandissima stima e gratitudine, forse non è questo il momento di stare a menarvela su quanto sia stato e sia ancora oggi importante il loro impegno per la musica underground in Italia negli ultimi quindici anni, fatto sta che è grazie a gente come loro, e come le altre coinvolte nel nostro album (Sonatine e Bloody Sound) e altre ancora, che una band riesce a mettere su disco le proprie idee e le proprie emozioni, che riesce in qualche modo a distribuirle e che riesce a incontrare altre band. E’ vero, oggi si potrebbe tecnicamente fare a meno delle etichette, ma io credo che il fatto che ancora ne esistano sia una grande ricchezza, anche per quel discorso sulla tradizione che facevamo prima, scorrere il catalogo di una etichetta underground che produce dischi da più di dieci anni è come una veloce lezione di storia della musica underground di un paese o di una certa zona geografica.
Tra i vari concerti che avete sostenuto e sosterrete questo anno, avete suonato anche al Krakatoa Fest, giunto alla sua terza edizione. Come è andata dal vostro punto di vista in merito a pubblico, addetti ai lavori ed atmosfera generale? Vi aspettavate qualcosa di differente?
Siamo stati bene, apparte il fatto che a Bologna ci sentiamo a casa, perché per alcuni anni è stata effettivamente casa nostra, ci siamo potuti trattenere per poco tempo quindi non possiamo giudicare che dal nostro veloce punto di vista, comunque a livello organizzativo ci è parso impeccabile, senza per questo darci la sensazione di essere degli ingranaggi dentro una macchina, c’era un’atmosfera molto bella, zero stress. Tra l’altro a noi i palchi grandi piacciono molto, e ci piacciono molto i PA potenti, i monitor, i tecnici di palco, tutte cose che la maggior parte delle band che hanno suonato generalmente si può scordare, al Krakatoa c’erano e non è assolutamente scontato. E’ proprio un bel festival dove anche una giovane band viene messa nelle condizioni di fare un grande concerto.
Per quanto riguarda i singoli musicisti e band con cui negli anni avete collaborato, o suonato nelle varie date in giro per l’Italia e per il resto dell’Europa, c’è qualcuno con cui avete mantenuto dei legami forti negli anni, o qualcuno che stimate profondamente?
La prima volta che ci è stato proposto uno split è stato con una band francese che si chiama Dead Like Me, uno di loro Reu da allora è entrato in qualche modo a far parte della famiglia, è un musicista e un amico con cui siamo tuttora in contatto e a cui vogliamo molto bene, poi ci sono i MoE, una band norvegese che abbiamo scoperto e che abbiamo portato in Italia ormai tanti anni fa e con cui da allora abbiamo condiviso molti palchi, alcuni tour e un disco in cui noi suoniamo un loro pezzo e loro ne suonano uno nostro. Sono musicisti e persone incredibili, oltre che una delle band che più amiamo e che vi invitiamo a scoprire, hanno appena pubblicato un ottimo album in cui collaborano con il compositore e sperimentatore noise Lasse Marhaug, si chiama Capsaicin come il composto chimico responsabile della piccantezza del peperoncino. Più recentemente abbiamo incontrato Enrico dei The Turin Horse con cui eravamo già in contatto ai tempi dei Dead Elephant, anche lui è un grande musicista e una persona coi cui ci sentiamo in sintonia.
Cosa pensate della scena DIY italiana?
Purtroppo a questa domanda dobbiamo rispondere in maniera un po’ severa e critica, noi vediamo tanto conformismo e tanta superficialità, ci dispiace constatare che la scena DIY sembra affetta dalla stessa sindrome che colpisce quella mainstream e la società in generale. Si generano e si seguono delle mode, delle tendenze che nascono attorno a qualche trovata più o meno originale e vediamo poi molto più impegno per conformarsi a quei trend piuttosto che per affrontare una vera e propria ricerca o semplicemente a seguire una propria strada. C’è molta pigrizia anche nel pubblico, si cercano conferme piuttosto che emozioni forti ed autenticità. Ad esempio c’è questa diffusa retorica del male e delle tenebre, questo satanismo estetizzante un po’ infantile e superficiale, trovo noioso che ci siano tante band che adottano lo stesso immaginario.
Ci sono band interessanti, ma quelle che ci piacciono di più e con cui sentiamo più sintonia sono spesso quelle che fanno più fatica a trovare un loro spazio in questa scena dominata dal conformismo, dall’apparenza e dal marketing.
Se aveste la possibilità di comprare un unico album/vinile, quale sarebbe?
Come uno solo?!
Vi ringrazio per la vostra disponibilità. Salutate i lettori di GOTR come preferite!
Ciao a tutti, grazie per aver letto fino alla fine, ora spegnete subito il computer / telefono / tablet.