Buio, vuoto e silenzio, tutti insieme e rigorosamente assoluti. Al netto di licenze poetiche e di filosofiche congetture, gli sconfinati spazi interstellari sono stati per millenni il regno incontrastato dell’ignoto e dell’inquietudine che accompagna inevitabilmente l’umano contatto con tutto ciò che per definizione si aggira intorno al concetto di infinito. Solo di recente la Scienza si è incaricata di smentire alcune di queste millenarie certezze, rivelando come tutto l’universo sia retto da leggi ferree e non troppo distanti dall’esperienza di una specie che dimora in un quartiere secondario alla periferia di una delle tante galassie possibili sulle mappe astrali. Ecco allora che i lampi in arrivo dalle quasar o dai violenti processi intorno all’orizzonte degli eventi hanno squarciato il velo del presunto buio ed ecco che la misteriosa materia oscura ha finito per riempire quegli spazi che si credevano paradigma dell’assenza di massa e sostanza. La stessa sorte è toccata anche al presunto pilastro “acustico” della triade e grazie alla scoperta della radiazione cosmica di fondo è ormai noto che l’universo è tutt’altro che il luogo silenzioso a lungo ipotizzato, attraversato com’è dall’eco dell’esplosione figlia del big bang primigenio. Lungi dal rappresentare un concerto di accattivanti melodie, quel ronzio simile al rumore costante in arrivo da canali radio che non trasmettono è diventato presto oggetto di interesse da parte di un manipolo di artisti decisi a spingersi fino agli estremi confini del rallentamento e della cristallizzazione dei ritmi doom, dando vita a un microcosmo generalmente noto con la definizione di drone.
Ed è proprio sul binomio astronomia/musica che gioca le sue carte un duo tricolore al debutto sulle lunghe distanze di un full length con questo Cassiopea. Che qualcosa di interessante stesse bollendo in pentola, peraltro, gli Alchemical Wake lo avevano chiarito fin dall’esordio in formato EP del 2016, 17, 3-6, in cui avevano dato prova di maneggiare con buona abilità la materia doom e stoner modellandola in chiave claustrofobica senza rinunciare a cadenze maestosamente austere (l’ottima “Blue Sundays” ne è forse il punto di più avanzato e riuscito equilibrio), ma il ritorno sulle scene assume ora contorni più definiti e non è certo un caso che abbiano attirato l’attenzione dei radar Argonauta Records. Rispetto al predecessore, infatti, la componente cosmic/space occupa un ruolo centrale che va ben oltre gli aspetti formali (artwork della cover, titolo del platter e dei singoli brani) ed entra nel cuore della narrazione e del linguaggio, ma è bene chiarire subito che eventuali, spasmodiche attese a sfondo psichedelico/visionario rischiano di essere profondamente deluse. Ad andare in scena, infatti, non è un campionario di panorami e spettacoli bensì, piuttosto, un abbandono al flusso spazio/temporale che accompagna il viaggio delle galassie in un universo in inesorabile e irreversibile espansione, seguendone per così dire battiti e respiri ed entrando dunque a far parte del “tutto” che ci circonda e sovrasta. Attenzione però a non considerare esclusiva la lezione drone, perché, sotto un involucro di distorsioni, fuzz e ronzii, pulsa ancora un battito genuinamente doom, al punto che, su un’ipotetica scala che preveda i Sunn O))) come ultimo e definitivo gradino, gli Alchemical Wake risulterebbero lontanissimi, fermi a malapena sui primi pioli. Dovendo trovare congrue pietre di paragone, allora, è decisamente più opportuno volgere lo sguardo verso altri lidi e modelli, immaginando per esempio una versione degli Sleep parzialmente privata delle radici lisergiche ad alta resa southern rock, sostituite qui da filamenti ossessivi e stranianti che conducono non di rado ad approdi quasi sludge. Ad aggiungere inquietudine, oltretutto, provvede il ricorso a un cantato sospeso in una dimensione ieratica e che, per quanto contenuto in termini di consistenza del minutaggio, contribuisce ad iniettare ulteriori vapori che sfuocano i contorni delle figure in un’atmosfera perennemente indefinita e circonfusa di un alone di mistero. Con simili premesse, è logico aspettarsi qualche problema sul fronte “fruibilità immediata/potabilità”, ma chiunque abbia intenzione di raccogliere la sfida moltiplicando gli ascolti, verrà ripagato con un’immersione sempre più coinvolgente nelle spire di un lavoro che riesce a mantenere sempre alta la soglia di attenzione e che annovera soluzioni tutt’altro che stilisticamente scontate. Prendiamo ad esempio l’opener “Libra”, che ci accoglie con una colata di fango vischiosissimo e paralizzante ma che improvvisamente si concede un lungo inserto quasi ambient appena increspato da rintocchi industrial, oppure l’inatteso sfoggio di cadenze muscolari che innerva la successiva “Noctua”, dove suggestioni electro incontrano un misurato tribalismo, oppure ancora il tiro settantiano che marchia a fuoco “Orion”: con qualunque ingrediente la band scelga di servire la sua pozione, il risultato non deluderà gli avventori seduti al bancone doom e drone apparecchiato in Sardegna. Certo, forse la conclusiva “Andromeda” sconta alla prova dei fatti qualche punta di autocompiacimento di troppo e si dilata eccessivamente nel finale senza trovare la chiave per aprire la porta dello straniamento a lungo cercato, ma anche nei suoi oltre tredici minuti la bilancia finisce per premiare i momenti riusciti rispetto alle debolezze e ci consegna una traccia che non scende mai sotto la linea di galleggiamento.
La pesantezza del doom che incontra gli acidi corrosivi dello sludge, astrazioni drone che avvolgono e minano strutture apparentemente monolitiche, un non-ritmo che rivendica ascendenze che si perdono nella notte dei tempi, Cassiopea è un album che occupa con molti pregi e pochi, scusabili, difetti un buon seggio in un consesso magari poco frequentato ma non per questo meno degno di attenzione. La qualità c’è, il coraggio anche, aspettiamo con fiducia gli Alchemical Wake alle prossime prove di inabissamento nella radiazione cosmica di fondo.
(2019, Argonauta Records)
1. Libra
2. Noctua
3. Orion
4. Andromeda