Le luci abbaglianti di una potenziale supernova in formazione ma anche qualche ombra di troppo che ne ha sempre insidiato la piena visibilità… potremmo sostanzialmente riassumerla così, la carriera di un quartetto che ha attraversato la seconda decade del nuovo millennio alla costante ricerca di una consacrazione definitiva che superasse e in qualche modo sublimasse una certa sensazione di “intermittenza creativa” che non ha mai smesso di accompagnarne crescita e storia. Stiamo parlando degli Alunah e i frequentatori della piccola ma preziosissima nicchia doom declinata al femminile ricorderanno sicuramente l’alone di predestinazione che sembrava circondare una band intrisa di reminiscenze sabbathiane fin dalla terra d’elezione, cioè quella Birmingham e le stesse West Midlands che hanno tenuto a battesimo il divino poker d’assi Iommi/Osbourne/Butler/Ward.
Partiti nel 2010 con l’ottimo Call of Avernus in una sorta di prospettiva mediana tra doom/stoner ad alto tasso psichedelico di marca Acid King e suggestioni esoteriche/cerimoniali di scuola Jex Thoth, col trascorrere degli anni e delle release gli Alunah si sono progressivamente spostati verso un doom decisamente più immediato e potabile, regalando lavori che, pur senza scrivere complessivamente capitoli memorabili, hanno sempre offerto perle individualmente scintillanti (pensiamo a una “Oak Ritual” in White Hoarhound o a “The Maske of Herne”, in Awakening the Forest). Il rapporto tra pregi e difetti, però, era pericolosamente mutato a favore di questi ultimi due anni fa con l’anonimo Solennial (riassunto alla perfezione dalla traccia di commiato, una cover di “A Forest” dalla più che dubbia riuscita, almeno per chi non ha mai smesso di venerare il primo monumento dark uscito dall’antro The Cure) e a conferma che qualcosa si fosse incrinato è sopraggiunta la notizia della dipartita dalla band della vocalist Sophie Day, sostituita da Siân Greenaway. Con la nuova cantante, il quartetto ha optato per una ripartenza dal minutaggio soft con il buon EP Amber & Gold (decisamente non male, nella circostanza, il capitolo cover, con una più che convincente versione di “Wicked Game”, storico cavallo di battaglia di Chris Isaak), salvo poi perdere un altro componente della line up, David Day, sostituito alle sei corde da quel Dean Ashton parallelamente entrato come bassista anche nella gloriosa scuderia Diamond Head. Terminate le scosse di assestamento, dunque, c’era grande attesa per il ritorno sulle scene dei Nostri in modalità full length ma, lo diciamo in premessa, questo Violet Hour dissipa solo in parte i dubbi che hanno accompagnato il percorso di questi ragazzi, pur riconoscendo tutte le attenuanti del caso per quella che a tutti gli effetti si configura come una nuova (ri)partenza. L’atmosfera complessiva dei brani, infatti, rimane solidamente ancorata alla tradizione doom classica, ma anche stavolta gli Alunah scelgono in troppe occasioni di lavorare col pilota automatico innestato, sfoderando una prova indubbiamente godibile ma con qualche falla di troppo sul fronte del coraggio e della capacità di combinare gli ingredienti per confezionare un prodotto, se non innovativo, almeno degno di nota in un genere ormai inflazionato. Volendo tracciare, con tutte le accortezze del caso, un parallelo con un’altra traiettoria artistica che sta manifestando segni di stanchezza dopo un avvio da fuochi d’artificio, possiamo affermare che gli Alunah stiano trattando le devozioni sabbathiane come gli Avatarium quelle di impronta Candlemass, distillando pozioni che brillano senz’altro per fruibilità, immediatezza e orecchiabilità ma che rischiano di risultare un po’ insipide per chi al doom chiede se non una completa immersione, almeno uno sguardo su oscurità e abissi. Non che, al netto delle oggettive differenze tra gli spettri vocali delle rispettive sacerdotesse, per approdare alla dimensione dell’indimenticabilità si debba necessariamente ricorrere alle divine iniezioni sludge alla Subrosa o ai tocchi “folk-stregheschi” di casa Blood Ceremony, ma se, rispetto agli esordi, si conferma anche un significativo inaridimento della vena occult rock, il rischio è quello di trovarsi con un arsenale dalle risorse non illimitate. Al quartetto, peraltro, oltre a prove individuali indubbiamente inappuntabili, va comunque riconosciuto l’indubbio merito di aver evitato la peste dell’effetto vintage a tutti i costi, al punto che l’aura settantiana che spira per tutto il corso del viaggio non risulta mai prelevata di peso da gloriose epopee del passato e ruffianamente iniettata nel corpo dei brani. Ecco allora che la linea di galleggiamento è garantita praticamente per tutta la tracklist (a partire da un’opener come “Trapped & Bound”, che pure strizza troppo l’occhio a concessioni melodiche easy listening, o dalla successiva “Dance of Deceit”, dove sopravvive un po’ di sabbia stoner), ma per puntare davvero in alto bisogna attendere l’atto conclusivo, affidato a una “Lake of Fire” che finalmente crea un’atmosfera in cui sogno e mistero reagiscono chimicamente alzando subito l’asticella emozionale. Nel mezzo, tanto onesto mestiere (“Hunt” merita senz’altro una citazione per l’impeccabilità delle forme, in questo lotto), qualche momento di stanchezza (“Hypnotised”, “Unholy Disease”) e frammenti di indubbio valore (il tiro hard rock della titletrack e i vapori ipnoticamente blueseggianti che avvolgono “Velvet”), che non costringono però a modificare la sensazione di fondo e il giudizio complessivo.
Non un passaggio del tutto a vuoto ma nemmeno l’epifania di una clamorosa rinascita, più di qualche antico difetto che resiste e si ripresenta nonostante i significativi cambi di line up, Violet Hour è un album che sconta il grosso limite di aggirarsi in territori dove per emergere serve ormai un carico di personalità significativo, per aspirare a una durata che spezzi le catene del qui e (solo) ora. Agli Alunah un doveroso bentornati, ma anche l’auspicio che questa sia solo la base… in attesa dell’altezza.
(2019, Heavy Psych Sounds Records)
1. Trapped & Bound
2. Dance of Deceit
3. Hunt
4. Hypnotised
5. Violet Hour
6. Unholy Disease
7. Velvet
8. Lake of Fire