Energia, adrenalina, decibel a profusione, crani e membra ininterrottamente attraversati da una corrente che genera fremiti e sussulti più o meno armonici… dalla solitudine delle camerette di adolescenziale memoria agli eventi collettivi sotto palchi inesorabilmente inondati di sudore, l’immaginario collettivo associa pressoché pavlovianamente l’idea del metal fan a quella del “movimento”, secondo coordinate debitrici dei debutti settantiani del genere con le annesse progeniture rock/blues. Se, però, si può ritenere valido e attendibile un cotale quadro di insieme per gran parte delle band che orbitano intorno al grande astro in cui brucia imperituramente idrogeno di conio zeppeliniano, un manipolo di schegge impazzite figlie dell’eredità sabbathiana si è via via allontanato dal cuore della galassia, finendo per occupare i gelidi spazi siderali dove sopravvive a stento l’eco del metal big bang primigenio. Ed è qui, in una sorta di nube di Oort pentagrammatica sospesa tra fissità e cristallizzazioni del ritmo, che hanno preso dimora le traiettorie artistiche generalmente catalogate come funeral doom, a identificare un sottogenere ad alto tasso di spopolamento e con pari quoziente di difficoltà sia sul fronte della proposta, sia su quello della fruizione ed è ancora qui che, a due anni di distanza dall’ottimo S, ritroviamo ancora una volta in grande stato di grazia creativa il quartetto dei Mesmur.
Partiti nel 2014 con un album ancora intriso di suggestioni doom/death di marca Esoteric, con il citato S i Nostri avevano affrontato tematiche scientifico/filosofiche alzando gli occhi al cielo e descrivendo il destino che attende il nostro universo alle prese con la forza disgregatrice e infine letale dell’entropia, che porterà alla morte termica l’intero sistema. Musicalmente, in quel platter erano stati messi a (proficua) dimora diversi spunti e arricchimenti rispetto al debut, a cominciare da un gusto atmosferico decisamente più affinato (i riflessi Shape of Despair possono essere un’ottima cartina di tornasole), passando per le andature cadenzate alla Skepticism, per approdare infine a non rare escursioni in lande black, dove si potevano scorgere nitidamente orme Gris. Completata l’esplorazione della volta celeste, i Mesmur scelgono stavolta il nostro pianeta e la nostra specie come oggetto di riflessione per questo Terrene, trasportando nel microcosmo dell’umana dimensione lo stesso senso di ineluttabile rovina inscritta nel codice genetico dell’universo. Come abbondantemente chiarito dai titoli delle singole tracce, lo scenario è quello di una Mesopotamia che, da culla della civiltà (almeno quella occidentale), ne diventa la tomba certificando il fallimento delle pretese di immortalità e di tutti gli affanni delle generazioni che si sono succedute coltivando la speranza se non altro di esserci, nel momento in cui calerà il sipario sull’esperienza del mondo conosciuto. Così, in una sorta di concorso di colpa tra ciò che il fato ha immutabilmente imposto fin dalla creazione e gli errori che abbiamo accumulato accelerando la fine di uno spettacolo sempre meno edificante, l’ultima dimora collettiva prima dell’apocalisse saranno le stesse caverne da cui tutto ha avuto inizio, stavolta senza la speranza di prometeiche conquiste ma, anzi, inseguiti dalla consapevolezza della caduta. Intorno a questo tema i Mesmur apparecchiano un’impeccabile macchina scenica, al cui centro troneggia una nuova Babilonia in cui la materia, lungi dal rappresentare lo strumento di una sia pur vana sfida al cielo, si è rivoltata contro i costruttori e chiude minacciosa la vista dell’orizzonte e del futuro. Ecco allora innalzarsi quattro monoliti impenetrabili e dalla durata chilometrica, in cui monumentalità e spettralità si contendono il primato e dove filtra a stento una luce crepuscolare che, lungi dal rivestire una funzione vivificante o almeno consolatoria, diventa un ulteriore strumento per instillare vapori sinistri nel corpo dei brani. L’opener-monstre “Terra Ishtar” chiarisce immediatamente a quale stadio di maturità sia ormai approdato il quartetto (e non è certo un caso che il buon Semenov se li sia tenuti stretti, sotto le insegne Solitude Productions), capace di tenere altissimo il livello di attenzione per diciassette minuti da trascorrere su un altopiano spazzato dai venti gelidi in arrivo dai ricami di sei corde, tastiere e mellotron di un sempre ispiratissimo Jeremy Lewis, ma in grado del pari di regalare l’incanto di un inserto malinconicamente melodico su cui si allungano ombre Swallow the Sun, Saturnus e Doom:vs. I ritmi diventano più pachidermicamente solenni nella successiva “Babylon”, offrendo al vocalist australiano Chris G l’opportunità di sfruttare appieno, in modalità che oseremmo definire “liturgica”, tutte le potenzialità del suo growl più sabbioso che catacombale, perfetto per intercettare il cadenzato incedere del basso di un Michele Mura semplicemente perfetto nel ruolo del cerimoniere nero. Con “Babylon” si apre anche il capitolo-ospiti (qui tocca a Don Zaros, in libera uscita dalle tastiere della casa madre Evoken, cimentarsi con il flauto), completato dalla violoncellista russa Nadia Avenosova che impreziosisce “Eschaton”, forse la traccia più multicolore del lotto tra i delicati arabeschi dell’avvio, un riuscito gioco di appuntite dissonanze che sfociano in un inatteso momento contemplativo e un gran finale in cui il drummer John Devos trova modo di esaltare le pulsioni black che fanno ormai parte del corredo genetico della band. Chiude il viaggio la spettrale “Caverns of Edimmu”, ultimo, disperato inno di un genere umano rintanato nell’unica dimensione rimasta ad accoglierlo; realtà o metafora poco importa, basta un solo verso per racchiudere il (non) senso del finale di partita che ci attende: “Catacombs, our home”…
Denso e oscuro ma attraversato da delicate linee poetiche pronte a emergere in superficie potenziando il senso complessivo di straniamento, palcoscenico desolato su cui rendere drammaticamente visibile e reale l’incontro tra individualità degli incubi e collettività di un destino ostile, Terrene è un album che entra di diritto nel ristretto novero delle eccellenze funeral doom ben oltre il recinto temporale di questo 2019. Anche stavolta vale assolutamente la pena mettersi in viaggio verso gli estremi confini della metal galassia, all’arrivo ci attende l’ennesima perla, nello scrigno Mesmur.
(2019, Solitude Productions)
1. Terra Ishtar
2. Babylon
3. Eschaton
4. Caverns of Edimmu
8,5