“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”… così, attribuendola a una sorta di predisposizione genetica, un tremante don Abbondio cerca di giustificare la propria incapacità di andare oltre i confini del mondo a lui noto mettendone in discussione le regole e osandone sfidare i condizionamenti. Se, però, il celebre curato di manzoniano conio è entrato nella memoria condivisa non fosse altro che per una sostanziale comprensione delle umane debolezze di cui è diventato campione e paradigma, non tutti ricordano che in quel dialogo dei Promessi Sposi c’è un secondo, altrettanto potente protagonista pronto a dimostrare che è possibile scegliere strade diverse nel nome della coerenza con le proprie, più intime aspirazioni.
Passando dalla letteratura al mondo delle sette note e focalizzando lo sguardo sulla scena tricolore, uno dei moniker più seriamente candidati al ruolo di ipotetico cardinal Borromeo del post-metal cisalpino è senz’altro quello dei Postvorta, capaci negli anni di ritagliarsi un ruolo di primissimo piano in un panorama peraltro fortunatamente sempre più ricco in termini di quantità e qualità delle proposte in campo. Dopo l’ottimo debutto Beckoning Light We Will Set Ourselves on Fire, la band di Ravenna ha scelto di cimentarsi subito nell’elaborazione di arditi piani di volo annunciando l’intenzione di dedicarsi a una “trilogia della nascita” che desse forma e sostanza alla scelta di un nome in cui rivivono gli echi della religione domestica dell’antica Roma, con il suo corredo di ninfe ed entità minori da invocare per gli aspetti più prosaici della quotidianità, lontano dalle istituzionali e civiche venerazioni delle divinità del pantheon classico. Così, dopo Aegeria e Carmentis, la scelta del titolo per il capitolo conclusivo cade ora su Porrima (la ninfa che assisteva madri e nascituri in caso di parto non podalico), ma, non contenti di portare a termine l’impresa annunciata cinque anni fa, i Postvorta scelgono di arricchire ulteriormente il piatto proponendosi di mettere in musica uno dei cavalli di battaglia della psicoterapia moderna, vale a dire le cinque fasi dell’elaborazione del lutto, ovvero il cammino che, partendo dalla Negazione, porta all’Accettazione passando per Rabbia, Negoziazione e Depressione. A ciascuno di questi capitoli è dedicata una traccia e basta dare un occhio al timing complessivo e dei singoli episodi per capire che siamo in presenza di un lavoro che intreccia inestricabilmente godimento artistico e difficoltà di fruizione, collocandosi fatalmente in una “terra d’ascolto” in cui eventuali viandanti occasionali faranno fatica ad aggirarsi, a differenza di chi maneggi già disinvoltamente i codici del genere. Ma quale genere, in realtà? Indubbiamente, la componente post continua a rivendicare una significativa centralità ed è sostanzialmente in questo ambito che il platter può essere collocato in sede di catalogazione, ma a patto di non sottovalutare gli apporti in arrivo da molti altri metal quadranti, con le pesantezze doom e i fanghi sludge subito in evidenza ma con una presenza tutt’altro che secondaria di elementi melodico/atmosferici a fare da controcanto ai passaggi più muscolarmente orientati. Si confermano così, ulteriormente affinati, gli elementi che avevano impreziosito il predecessore Carmentis, a cominciare da una spiccata propensione per le dissonanze core inserite in un habitat ad alto tasso di claustrofobia (qui lo scream ispidamente appuntito del vocalist Nicola Donà è un marchio di fabbrica ad altissima fedeltà), ma non mancano momenti di relativo abbandono che peraltro, lungi dallo spezzare il filo della tensione e del tutto privi di una funzione contemplativa o anche solo vagamente consolatoria, contribuiscono a loro volta ad accrescere il senso di straniamento complessivo. Se, dunque, non tramontano mai sotto la linea dell’orizzonte le devozioni isisiane e se l’ombra dei Cult of Luna si allunga disegnando strutture per larghi tratti maestose e imponenti (l’opener “Epithelium Copia” è probabilmente la traccia più immediatamente riconducibile ai lavori dei maestri di Umea), l’iniezione di vapori acidamente visionari nell’atmosfera dei brani avvicina i Nostri in diverse occasioni alla monumentale resa allucinatoria di una band come gli Amenra e se a questo aggiungiamo il pulsare di una vena drone/ambient sia pure intermittente, forse l’accostamento più opportuno è quello con i (purtroppo, ahinoi) recentemente dissolti parigini Dirge. In una tracklist che, complici le impeccabili prove individuali dei protagonisti (a cui vanno aggiunti bonus ulteriori per il lavoro dietro le quinte di Riccardo Pasini e Magnus Lindberg), non prevede il minimo attimo di sbandamento una volta che si è entrati in sintonia con l’articolazione dei brani in forma (e spirito…) di suite, è un compito oltremodo arduo isolare i momenti migliori, ma ci sentiamo di spendere qualche lode in più innanzitutto per le splendide spire ipnotiche che innervano il finale di un brano come “Vasa Praevia Dispassion” e, al capo opposto dello spettro, per l’altrettanto riuscita chiusura della successiva “Decidua Trauma Catharsis”, dove i gorgheggi dell’ospite Francesca Grol incrementano il tasso di visionarietà distopica spingendola ad esiti quasi cinematografici. Si resta su vette di assoluta vertigine qualitativa con la a lungo tellurica “March Dysthymia”, ma proprio quando sembra di assistere al trionfo di una prospettiva sludge, ecco che a scompaginare le carte provvede un profeticamente cadenzato inserto narrato in italiano (affidato alla lettura di Alberto Casadei, in libera uscita dalla casa madre Solaris) che instilla gocce malinconiche da cui la band fa successivamente zampillare il miglior momento melodico del viaggio. E non tradisce nemmeno la traccia-monstre della compagnia, la conclusiva “Aldehyde Framework”, che impegna i suoi ventitré minuti tra i minimalismi ambient e gli inattesi refoli alcestiani dell’avvio, un corpo centrale dove si affacciano echi della musica per astronauti di scuola Rosetta e un finale in dissolvenza in cui dallo sciabordio delle onde nasce un delicato e crepuscolare brivido electro.
Una scena illuminata a giorno (e a notte…) dai riflessi delle migliori post lampade planetariamente in circolazione senza mai trasmettere la sensazione che le mani che le accendono si accontentino di alimentare fuochi accesi da altri, il coraggio di concepire e affrontare con la piena consapevolezza dei propri mezzi un’impresa con un coefficiente di difficoltà fuori dal comune, Porrima è un album che merita di lasciare una traccia indelebile, sulla strada che porta all’ascesa di una band verso l’Olimpo di un genere. Non che ci fossero grandi dubbi fin dai primi passi, ma ormai è l’intera carriera a parlare per loro: i Postvorta hanno preso fissa dimora, lassù.
(Sludgelord Records, 22 Dicembre Records, 2020)
1. Epithelium Copia
2. Vasa Praevia Dispassion
3. Decidua Trauma Catharsis
4. March Dysthymia
5. Aldehyde Framework