Anni e anni fa, da qualche sperduta pagina di qualche ormai dimenticata ‘zine, chi scrive aveva letto un’opinione di T.G. Fisher in cui il succo sostanzialmente era “Internet ha eliminato la magia della musica e dei musicisti”. Ma perché questo? Perché ormai la possibilità di farsi gli affari altrui è diventata norma, e non vi è più una sana distanza ad interporsi tra l’ascoltatore, oggigiorno più che mai parassita speculatore, e il musicista, che specialmente in certi generi dovrebbe egli stesso mantenere una certa segretezza sul proprio conto. Meno si sa, e si spera, più si fantastica. Una componente aggiuntiva importantissima è quella fanciullesca erotica ossessione per immaginare e divagare sulle sembianze, sulle caratteristiche di certi musicisti elevandoli così a un livello più elevato che solo umano. Li si rende qualcosa di più, veicolanti un messaggio superiore, trasferiti in essenza a entità che arricchiscono così il contenuto musicale dei loro sforzi. Se alcuni generi sicuramente non beneficiano particolarmente di questo, e nemmeno ne hanno bisogno, altri ne hanno fatto una fortuna e caso volle che nuovi ereditieri raccolgano sani germi e li sappiano far sviluppare concretamente. Qualche esempio su tutto: le fanfaronate costruite ad hoc di certe interviste ai Gorgoroth, i Deathspell Omega, il cui quasi ossessivo (alle volte) cercare di smascherare voce e intenti politici ha solo prodotto noia e fiacchezza, o infine i Nightbringer, gruppo per chi scrive eccelso che ha sempre cercato di spingere più per il veicolare il proprio messaggio esoterico, ma che ogni tanto si ritrova a fare i conti con la curiosità di chi ancora la pubertà pare non averla superata. E la lista potrebbe continuare.
Da due anni a questa parte in Svizzera, Zurigo, sopravvive una di queste entità meravigliose, dedita a una destrutturazione sonora salvifica. I Death. Void. Terror. sono infatti autori di una scomposizione sonora che fonda il principio in una sovrasaturazione della distorsione, adeguatamente condita con delay e riverberi, per generare un’onda vera e propria che si muove e muta incessantemente, violenta e virulenta e ipnotica. A due anni dal primo lascito To the Great Monolith, che presentava appunto questa intrigante miscela sonora che riportava in auge (tra cvltori ovviamente) quella sorta di mix alla Abyssal e Chaos Echoes sovrasatura, arriva il secondo capitolo To the Great Monolith II, che ridefinisce leggermente il suono, quasi impercettibilmente più udibile, o definito che dir vogliate, con più variazioni nell’organico della forma composizione, vocalizzi sempre più ispirati alle atrocità dei primi Abruptum con capacità pure maggiori. Death. Void. Terror. conferma quindi i dubbi di quanti potessero chiedersi cosa fosse in grado di diventare, e la risposta è “vivo”. Un organico sostanzialmente privo di forma intellegibile ai più ma che man mano evolve, si adatta e incomincia a prendere coscienza di sé. Meno ambient e sempre più tendente a una sperimentazione black/doom innovativa, ogni elemento prende seriamente forma, dai pattern di batteria che incominciano a comunicare e delineare confini e forme, chitarre a loro volta più definite e non solo più solo un inarrestabile flusso sonoro inquietante, senza per questo perdere però quei leitmotiv elaborati e deviati.
Collegandosi a quanto scritto prima e chiudendo, senza nomi pervenuti se non il numero esiguo dei partecipanti (due), e senza titoli lessicalmente memorizzabili gli svizzeri hanno efficacemente operato una dematerializzazione dei nostri costrutti in fatto di musica. Qui non conta più chi sia a suonare o cosa suoni, ma come questo flusso sonoro possa considerarsi un’entità a sé, che non opera nel nostro intendere. Per chi ha i soliti ascolti la musica è altra cosa, per chi sta perdendo la testa nel proprio viaggio nell’oblio durante questa quarantena squisitamente misantropa ecco qui uno degli album dell’anno. Vedrete che al termine di questo viaggio per il monolite il silenzio sarà assordante.
(Repose Records, 2020)
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