Mai dare per scontate le partite quando giocano i fuoriclasse… chiunque abbia contatti anche saltuari col mondo dello sport lo sa perfettamente, al cospetto del grande campione capace di inventare in ogni momento un colpo inatteso e decisivo non c’è previsione che tenga, non resta che sgranare gli occhi e applaudire. Quando poi il fuoriclasse in questione si aggira da protagonista da tempo immemore nell’agone senza aver mai praticamente sbagliato una sola prova, il confine tra apprezzamento e venerazione rischia di assottigliarsi fino alle soglie della scomparsa.
Trent’anni di carriera, un ruolo di caposcuola nella nascita e diffusione di un genere, un rapporto con i fan mantenuto sempre vivo grazie a una regolarità di pubblicazioni che è merce abbastanza rara nel mondo delle sette note, il santuario dei Paradise Lost è ormai una sosta imprescindibile per tutti i devoti in pellegrinaggio sulle frequenze più oscure del metal cammino, ma non per questo le cicliche aperture dei sacri cardini sono diventate un rito da cui attendersi cerimonie ad alto tasso di prevedibilità. Così, reduce da una doppietta come The Plague Within e Medusa, in cui il pendolo dell’ispirazione sembrava essersi spostato verso le componenti death e doom, privilegiando in generale la pesantezza pur senza mai rinnegare un’innata propensione per gli impianti melodici, il quintetto di Halifax cambia ancora (relativamente) prospettiva e torna ad abbeverarsi a quella fonte gothic da cui in passato ha saputo trarre preziosa linfa per regalare gli indiscussi vertici della propria discografia. Beninteso, nessuno si aspetti un tuffo anacronistico nelle sonorità degli esordi, ma è innegabile che questo Obsidian riconcilierà con la band tutti coloro che, soprattutto nel predecessore, avevano colto i tratti di un cambio di registro troppo accentuato, riportando al centro della scena una rinnovata cura per i dettagli e le atmosfere. Ad andare in scena, dunque, è il classico gothic di marca Paradise Lost, in grado di spaziare con pari esiti tra enfasi e delicata voluttuosità con l’aggiunta di un retrogusto dark che non di rado conferisce all’insieme un tocco di decadenza quasi bohémien, sulle rotte della migliore lezione Katatonia. Intorno a questo asse centrale i Nostri dispongono tutto il loro sterminato arsenale, a cominciare dalla ricerca costante della semplicità mai a scapito della profondità (la durata delle tracce, in questo, è l’ennesima conferma di come non serva essere prolissi, quando si è capaci di far emozionare), per arrivare alle prove monumentali dei protagonisti, ormai da tempo in assetto “impeccabile macchina da guerra” complice anche un affiatamento figlio di una line up sostanzialmente immutata, batteria a parte, dalla data di fondazione nel lontano 1988. Ciliegina sulla torta, Nick Holmes sfodera la migliore prestazione di sempre al microfono, da un lato riscoprendo le potenzialità del suo growl sabbiosamente avvolgente, dall’altro, soprattutto, concentrandosi su un clean che esalta le sue doti da interprete puro, alternando potenza e malinconici abbandoni. Per avere un’idea delle frecce nell’arco del vocalist, del resto, basta un ascolto dell’opener “Darker Thoughts”, splendido esempio di come teatralità drammatica, ritmo cadenzato e atmosfere eteree possano convivere sotto lo stesso tetto (con citazione d’obbligo per le delicate incursioni del violino, qui brandito con gran costrutto dall’ospite Alicia Nurho), oppure si può puntare direttamente sul brano più coraggioso della compagnia, vale a dire quel “Ghosts” in cui tutti i rocker più attempati hanno riconosciuto le stimmate dei gloriosi The Sisters of Mercy, al culmine dell’incontro ottantiano tra post punk e new wave (che i Paradise Lost nutrissero una stima incondizionata per Eldritch e compagni, peraltro, era già stato abbondantemente chiarito dall’ottima cover di “Walk Away”, rilasciata ormai un quarto di secolo fa). Inserita tra queste due perle, la stessa “Fall from Grace”, rilasciata in anteprima dalla Nuclear Blast e su cui si erano addensate le nubi di qualche detrattore che ne ha sottolineato una sorta di deriva “manieristica”, finisce per incarnare la funzione di logico e solido anello di congiunzione, manifestando inaspettate doti di longevità che trascendono la prima impressione di specchietto per le allodole a uso ed esclusivo consumo di sprovveduti digiuni del genere. Aperto da un simile trittico aureo, anche il resto della tracklist non tradisce le premesse, a cominciare dall’andatura liturgica di “The Devil Embraced”, su cui si stampa un altro dei grandi marchi di fabbrica della band, cioè l’assolo di filiazione hard rock ovviamente a cura di sua maestà Greg Mackintosh. Forse meno sorprendente di “Ghost” ma non per questo meno riuscita, anche la martellante “Forsaken” supera abbondantemente l’esame dell’assalto al cielo new wave ottantiano, mentre tocca a “Serenity” aprire uno squarcio sul passato della band con la sua possibile collocazione, per consonanza, in un monumento del calibro di Icon. E’ tempo però di tirare almeno parzialmente il fiato e allo scopo provvede l’eccellente semi-ballad “Ending Days”, impreziosita nel finale da un altro gioiellino confezionato da Mackintosh ma a cui forse avrebbe giovato un ricorso più convinto al violino, relegato invece alla dimensione cammeo. Individuato in “Hope Dies Young” il possibile, parziale anello debole della catena, si riprende subito quota con la conclusiva “Ravenghast”, di gran lunga la traccia più oscura della compagnia nonché quella a più alta resa doom, arricchita oltretutto da un rintocco di pianoforte che per larghi tratti dispensa riflessi vagamente spettrali, a ricordarci che nel mondo gothic sono pur sempre le ombre, le vere regine delle atmosfere.
Invecchiare dignitosamente rimescolando ingredienti che si sanno combinare con successo o accettare la sfida del tempo e rimettersi in gioco ogni volta come se il passato fosse solo una premessa? Nell’eterno dilemma che vivono tutte le band che hanno scritto capitoli fondamentali nella storia di un genere, i Paradise Lost non hanno mai avuto dubbi, la qualità è una conquista quotidianamente faticosa e mai scontata e non si concede per diritto divino neanche al più affermato dei monicker. Se mai qualcuno stesse cercando l’elisir di lunga vita di una carriera ormai trentennale, Obsidian è l’ennesima ampolla in bella vista sullo scaffale… nel reparto grandissimi album.
(Nuclear Blast, 2020)
1. Darker Thoughts
2. Fall from Grace
3. Ghosts
4. The Devil Embraced
5. Forsaken
6. Serenity
7. Ending Days
8. Hope Dies Young
9. Ravenghast