La torta migliore su cui spegnere le candeline di un compleanno fondamentale… possiamo riassumerlo così, tra pasticceria di alta scuola e gli auguri per il mai banale traguardo dei dieci anni di carriera, il ritorno sulle scene dei ravennati Void of Sleep, che riemergono da un lustro di silenzio dimostrando di non aver dimenticato come vanno impastati gli ingredienti per ottenere un prodotto di altissima qualità.
Nato nel 2010 e subito in evidenza con l’EP Giants and Killers, l’allora quartetto si era meritato sul campo i galloni di grande promessa dello stoner/sludge tricolore a consistenti tinte doom e prog con l’eccellente Tales Between Reality and Madness, per il quale si erano scomodati più che illustri numi tutelari, dagli Orange Goblin ai Mastodon passando per Tool, Opeth e finanche Dream Theater. Per nulla schiacciati dal peso di simili aspettative e accostamenti, i romagnoli si sono ripetuti nel 2015 con il non meno convincente New World Order, in cui l’indubbio incremento della “potabilità” dell’insieme non ha minimamente intaccato la profondità e la capacità di articolare la proposta su più assi, peccato solo che da quel momento dei Nostri si fossero perse le tracce, con un’incognita aggiuntiva sul futuro figlia della dipartita dalla band di un monumento vivente del calibro di Riccardo Pasini. E’ altrettanto vero però che, al cospetto di grandi sfide, i migliori sanno snocciolare grandi risposte e i Void of Sleep di questo Metaphora appartengono senz’altro a questa tutt’altro che densamente popolata categoria, a partire dai ritocchi alla line-up con Andrea Burgio dei Nero di Marte chiamato a sostituire Pasini alle quattro corde e con l’aggiunta di Mohammed “Momo” Ashraf alle tastiere in libera uscita dalla casa madre Postvorta, protagonisti entrambi di prove sontuose e decisive per la sorte del platter. Sul fronte dei contenuti, i Nostri confermano la rotta intrapresa dal predecessore, incrementando ulteriormente il tasso di fruibilità e non disdegnando intelligenti incursioni in territorio melodico, ma senza mai perdere di vista le radici di un’ispirazione tuttora riconducibile al grande alveo sludge (pensiamo ai Kylesa o agli ultimi Crowbar, come possibile pietra di paragone). Indubbiamente, rispetto al passato, ai paladini più ortodossi dello stoner potrebbe mancare qualcosa, delle lisergicamente immortali atmosfere di marca Kyuss o Sleep, ma va detto che la componente psych ricopre comunque un ruolo di primo piano, sia pure qui declinata in chiave più multidirezionale arrivando a lambire le frontiere ambient e drone. Ulteriore ciliegina a guarnire la torta, la prova al microfono di Andrea “Burdo” Burdisso va ben oltre la dimensione di quella scolastica “solidità” con cui spesso si liquidano cimenti sicuramente senza infamia ma anche senza particolari lodi, offrendo al contrario una brillante dimostrazione di come, evitando inutili forzature, il comparto vocale possa risultare decisivo nella manipolazione della materia prog. La scelta è prevalentemente orientata su un clean dai tratti discretamente enfatici, per il quale ci sentiamo di scomodare (non certo per meccanica sovrapponibilità dei timbri né tantomeno come possibile confronto tra le rese, quanto piuttosto come attitudine a conferire una sorta di solenne teatralità all’impasto) un nome di sicuro effetto come quello di Geoff Tate, maestro assoluto di cesellature avantgarde innestate su impianti prog melodicamente orientati. Sette tracce per poco più di 45 minuti complessivi di ascolto, Metaphora si apre con i giri acusticamente raffinati di “The Famine Years”, ma bastano pochi solchi della successiva “Iron Mouth” per ritrovarsi catapultati in una realtà completamente diversa in cui la pesantezza del doom apre e chiude le danze lasciando però abbondante spazio a un corpo centrale dominato dalle spire ipnotiche disegnate dalle sei corde di Burdo e Marco “Gale” Galeotti. Di fronte a un piatto così lucullianamente apparecchiato, risulta quanto mai opportuna e accattivante l’improvvisa svolta minimalista della breve “Waves of Discomfort”, che inietta sulla scena vapori ambient in attesa della successiva esplosione di energia, affidata alle onde d’urto di “Unfair Judgements” (forse, a conti fatti, la traccia con meno personalità della compagnia, nonostante la nota di merito comunque conquistata sul campo dalla sezione ritmica) e, soprattutto, di “Master Abuser”, un autentico pugno in faccia in cui Burdo sfodera uno scream abrasivo e urticante mentre intorno si scatena una tempesta di fulmini e fanghi sludge che attesta la non recisione del cordone ombelicale che lega i Void of Sleep al mondo dei contrasti e delle dissonanze. Che ci si trovi in presenza di un lavoro in crescendo è certificato dalla coppia di brani che chiude la tracklist, a cominciare dalla probabile perla del lotto, “Modern Man”, impreziosita dai ricami di un Burgio da applausi nell’arricchire di sfumature un impianto dallo spiccato gusto dreamtheateriano, per arrivare alla conclusiva “Tides of the Mourning”, vera e propria suite in cui i romagnoli danno libero sfogo a una vena narrativa che ci accompagna nelle innumerevoli stanze approntate impeccabilmente secondo i sacri dettami della migliore tradizione prog. Che si tratti dell’avvio contemplativo, del successivo inabissamento doom/death sottolineato da una fugace apparizione del growl, di uno squarcio melodico a presa rapida che assomiglia molto a un ritornello dalle movenze accattivanti e addirittura di qualche coriandolo grunge che appare in vista del finale, non c’è un solo passaggio in cui si possa insinuare anche solo il sospetto di una compiaciuta freddezza autoreferenziale che innesti il pilota automatico penalizzando il coinvolgimento emotivo. Dieci minuti di traccia… e altrettanti di applausi, quando si riaprono le porte dell’astronave, a fine viaggio.
Terza prova di una carriera fin qui geneticamente incapace di concepire non solo passaggi a vuoto ma neanche il minimo accenno a un calo di tensione, testimonianza inequivocabile di un profilo e di una caratura a cui stanno ormai decisamente stretti gli angusti confini nazionali, Metaphora è il classico album della maturità di una band che ha saputo affrontare le difficoltà senza perdere il contatto con le ragioni più profonde del proprio “fare e vivere” musica. Bentornati Void of Sleep, se cinque anni di silenzio erano il prezzo da pagare per avere un lavoro così, ne è valsa la pena… più che sicuramente.
(Aural Music, 2020)
1. The Famine Years
2. Iron Mouth
3. Waves of Discomfort
4. Unfair Judgements
5. Master Abuser
6. Modern Man
7. Tides of the Mourning