“Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser…”
Non servono didascalie, inutile fornire ulteriori dettagli, la memoria anche dei meno accaniti divoratori di prodotti dell’ex regno della celluloide riconoscerà immediatamente nelle parole pronunciate dal replicante Roy il manifesto di uno dei film che meglio ha saputo evadere dal chiuso delle sale per diventare fenomeno di costume, trasformandosi rapidamente in oggetto di culto e venerazione. Non conta che siano trascorsi quasi 40 anni, poco importa che, sul fronte squisitamente “visivo”, Blade Runner possa sembrare a molti cinefili del Terzo Millennio cresciuti a computer graphics & effetti speciali poco più di un prodotto di modesto artigianato, l’immagine di quelle navi cosmicamente in fiamme e di quei raggi capaci di squarciare il buio planetario è ancora un potentissimo richiamo a staccare lo sguardo dall’umana, insignificante quotidianità e dal nostro senso di ingiustificata onnipotenza per rivolgerlo agli infiniti che ci sovrastano. Che la mistica del viaggio e della scoperta siano tratti geneticamente connessi alla nostra specie, del resto, è tema ampiamente noto e sfruttato in qualsivoglia cimento artistico fin dalla notte dei tempi e la musica ne è probabilmente una delle prove più eloquenti, potendo contare su un’universalità e un’ampiezza espressiva che sono garantite solo in parte, per esempio, a chi sceglie di affrontare gli stessi temi utilizzando forme espressive mediate dal ricorso alla parola. In ambito metal, la corrente post si è candidata subito a un ruolo di avanguardia come cassetta degli attrezzi per viaggiatori compulsivi alla ricerca di una colonna sonora adeguata da un lato al senso di smarrimento che scaturisce inevitabilmente dall’abbandono delle dimensioni conosciute (e abusate) e dall’altro alla necessità di descrivere gli spettacoli incontrati lungo il percorso. Se il primo dei due versanti è abbastanza densamente popolato di nomi e titoli (citiamo qui per brevità il solo “The Galilean Satellites” dei Rosetta, assurto non a caso a prototipo di quella musica per astronauti di cui il combo di Michael Armine è capostipite), la pattuglia di frequentatori del secondo pendio è decisamente meno nutrita, anche se tutt’altro che qualitativamente trascurabile.
Splendidi “affrescatori” di spettacoli celesti incontrati pilotando una navicella spaziale in rotta tra materie ed energie più o meno oscure, i toscani Vesta si erano già segnalati tre anni fa in occasione del loro primo, omonimo album come campioni di un post-rock/metal visionario e cinematografico, capace di emozionare senza mai scadere in quell’autoreferenzialità che insidia spesso lavori avviati su simili coordinate. Una motivata curiosità li attendeva dunque alla sempre insidiosa prova del secondo album e questo Odyssey non tradisce davvero le attese, confermando le ottime premesse del debut sul fronte dell’ispirazione e dimostrando un’ulteriore crescita in termini di proprietà di linguaggio. Anche stavolta, allora, risulta vincente la scelta di affidarsi a un post-metal strumentale ad alto tasso di enfasi e magniloquenza, perfetto per entrare in sintonia con scenari dominati dalla solennità e dalla grandiosità. Una volta scelto di rinunciare alle potenzialità del cantato, il terzetto di Viareggio sceglie di puntare su un effetto caleidoscopio (e ci fermiamo volutamente alle soglie della peraltro abusata definizione “psych”, qui complessivamente poco calzante, se intesa nella sua accezione più ortodossa) che arricchisce straordinariamente le singole tracce stringendole contemporaneamente con un filo sottile che, pur senza configurare un concept canonicamente inteso, rimanda al senso profondo racchiuso nel titolo stesso del platter, là dove risuona l’eco di leggendarie ed eroiche epopee suddivise in capitoli a disposizione di aedi e cantori. A completare un quadro già più che sufficientemente accattivante provvede la prova monumentale dei protagonisti, a cominciare dalla sei corde e dall’effettistica moog di un sempre ispirato Giacomo Cerri, perfetto sia nel disegnare atmosfere ipnotiche sia quando rilascia improvvisi traccianti che squarciano l’ordine della tela, per passare all’autentica macchina da guerra del ritmo assemblata dalla coppia Lorenzo Iannazzone al basso e Sandro Marchi alla batteria, che rendono quasi fisicamente percepibili le tempeste che si consumano negli sconfinati spazi siderali. Rispetto al passato, oltretutto, ai Vesta riesce ancora meglio l’incastonatura nelle architetture dei brani della vena tribal già in filigrana nel debut e bastano pochi rintocchi all’opener “Elohim” per catapultarci in un orizzonte su cui si stagliano devozioni neurosisiane e ancor più nitide ombre dei sempre troppo trascurati Minsk con il loro approccio “sciamanico/liturgico” alla materia post. L’atmosfera diventa improvvisamente rarefatta e approda a una dimensione di pura contemplazione nella successiva “Tumæ”, impreziosita da un magnifico corpo centrale che nasce su increspature blues e finisce per evocare sabbie stoner in un crescendo melodico da applausi. Penalizzata anche da una collocazione poco invidiabile dopo una simile coppia d’assi, tocca a una troppo monocorde “Breach” indossare i panni della principessa meno nobile a corte, ma le poche nubi addensate si dissolvono immediatamente al cospetto delle spire sinuosamente ammalianti di “Juno” (chapeau al ricamo di marca Cure confezionato dalla ditta Cerri/Iannazzone) e, ancor più, grazie all’accoppiata “Borealis/Temple”, che scatena tempeste tooliane del tutto nelle corde della band (come peraltro già certificato da un brano come “Aurorae”, nel debut) e qui esaltate dal gigantesco lavoro alle pelli di Sandro Marchi, mai come in questa occasione direttamente sulle orme di sua maestà Danny Carey. Consumata la carica esplosiva, c’è spazio per un finale di viaggio dai giri motore più rallentati, con il post-rock a occupare il centro della scena sia nella compassata “Supernova”, in cui filtra finanche qualche refolo doom, sia nella bonus track “Cerere”, impreziosita in chiusura da un riuscitissimo impasto tribal/prog, a testimonianza del fatto che ai Vesta stanno comunque stretti, eventuali confini di genere troppo vincolanti.
Esplosioni di luci e colori che si compongono in modalità spettacolo visivo, torreggianti combinazioni di materia ed energia a disegnare architetture maestose che invitano a recuperare il senso della meraviglia e dello stupore, Odyssey è un album coinvolgente ed emozionante dal primo all’ultimo solco, collocandosi in una fascia qualitativamente non troppo distante dall’eccellenza. Sono passati tanti anni e non riusciamo ancora a vederle, le navi da combattimento in fiamme e i raggi B, ma a bordo dell’astronave Vesta possiamo ascoltarla distintamente, la colonna sonora in arrivo dai bastioni di Orione e dalle porte di Tannhauser.
(Argonauta Records, 2020)
1. Elohim
2. Tumæ
3. Breach
4. Juno
5. Borealis
6. Temple
7. Supernova
8. Cerere