Per qualcuno un genere di corto respiro, per altri una vena esaurita da tempo, per quasi tutti un campo minato dove per emergere e sopravvivere servono davvero doti soprannaturali o magiche congiunzioni astrali, il gothic a doppia ugola maschile/femminile non è mediamente, eufemisticamente parlando, tra le prime scelte delle metal legioni del Terzo Millennio, pronte a rilevare i limiti di un approccio che spesso si è effettivamente contraddistinto per un apparato scenico troppo propenso a stucchevolezze e ruffianerie assortite che hanno contaminato la genuinità dell’ispirazione a favore della caccia al cliché, a cominciare da quel “beauty and the beast” che ormai identifica come mantra (e maledizione) chi si avventuri su questi lidi. Strette tra suggestioni symphonic e ammiccamenti easy listening (le traiettorie artistiche di Tristania e Theatre of Tragedy possono qui rendere bene l’idea), l’impressione generale è che le band impegnate sul campo soffrano oltretutto di un deficit di longevità che spegne abbastanza rapidamente le luci pur spesso abbaglianti degli esordi, ma c’è almeno una consistente e clamorosa eccezione che non a caso è riuscita a varcare la soglia del quarto di secolo di carriera, peraltro con un “percorso netto” su cui non si è mai proiettata nemmeno l’ombra di un anche solo parziale passaggio a vuoto.
Stiamo parlando dei Draconian e il loro rientro sulle scene con la settima perla di una collana a questo punto di valore inestimabile, è di quelli destinati a prendersi le luci di una meritatissima ribalta ben oltre gli angusti confini di qualsivoglia sottogenere, rivendicando a pieno titolo uno dei primissimi posti d’onore tra le uscite dell’anno sotto qualsivoglia metal cielo e latitudine. Da sempre campioni e sommi maestri di un gothic ad altissimi dosaggi doom di chiara ascendenza My Dying Bride, con questo Under a Godless Veil gli svedesi dimostrano innanzitutto di aver definitivamente completato il processo di integrazione nel cuore pulsante della band della nuova vocalist Heike Langhans, subentrata nel 2012 a quella Lisa Johansson che per un decennio aveva retto magnificamente il gioco di controcanti con Anders Jacobsson regalando capolavori in serie (da Where Lovers Mourn a A Rose for the Apocalypse sono autorizzate praticamente tutte le opzioni, per individuare il loro vertice artistico). Non che l’esordio di cinque anni fa, in Sovran, fosse stato una delusione o anche solo un passo incerto, ma l’impressione era che i ragazzi di Säffle dovessero ancora capire fino in fondo e quindi valorizzare al meglio il cambio di registro necessariamente in corso nel passaggio da una vocalist come la Johansson, nata per “creare” oscurità e drammatizzazione su strutture imponenti al limite della magniloquenza, a un’interprete decisamente più orientata ai chiaroscuri malinconici come la Langhans. Che quest’ultima sia più a suo agio con il cesello che con la spada, del resto, è abbondantemente certificato, oltre che dal brano più etereo della compagnia, “Burial Fields”, anche dalle esperienze parallele coltivate in questi anni sia con il monicker LOR3L3I che sotto le insegne ISON e dunque non deve ingannare la scelta della band di tornare al logo degli esordi, evidentemente frutto di una mera preferenza “grafica” e non della volontà di riproporre in toto gli antichi canoni in una sorta di programmatico ritorno alle origini. Non sfuggirà ai frequentatori più assidui di queste frequenze, quindi, la possibilità di tracciare ben più di una linea di contatto con quella sorta di tristezza quasi limpida e luminosa che è stato il marchio di fabbrica delle prove di un’altra sudafricana trapiantata in Scandinavia, la sfortunata Aleah Stanbridge, musa ispiratrice di sua maestà Juha Raivio ben oltre la già comunque divina esperienza Trees of Eternity. Sull’altro piatto della bilancia, peraltro, va detto che l’evoluzione in atto non si spinge mai fino al punto di provocare la disgregazione dell’impianto doom di base, ampiamente consolidato e garantito sia dalla solita, monumentale prova di Jacobsson (titolare di uno dei migliori growl sabbiosi dell’intero panorama, capace non a caso di esaltarsi nelle prove live), sia da una sezione ritmica impeccabile (qui, dopo la dipartita di Fredrik Johansson, le quattro corde sono affidate a un Daniel Änghede attualmente ancora in modalità guest, in attesa di capire se si tratti di una soluzione temporanea o di un ingresso definitivo in line-up). Volendo trovare a tutti i costi qualche sia pur minimo difetto all’insieme (a parte il tormentone che parte puntuale a ogni uscita di casa Draconian, “C’è il violino?” e che qui, a costo di rovinare la sorpresa, liquidiamo subito con un perentorio “NO”), dispiace forse che lo spazio riservato ai riff sia complessivamente troppo centellinato, tenuto conto che in squadra militano due fuoriclasse come Daniel Arvidsson e Johan Ericson e che quando, come in “Night Visitor”, parte un assolo in piena regola, l’atmosfera si colora subito di riflessi in caleidoscopicamente magica combinazione. Dieci episodi per un’ora complessiva di ascolto, Under a Godless Veil è un album che, oltre la dimensione strettamente musicale, sfodera anche velleità culturali di tutto rispetto volgendo lo sguardo alla tradizione gnostica, con le sue implicazioni filosofico-esoteriche e l’offerta di una salvezza non mediata dalla fede quanto piuttosto da un percorso di conoscenza. Non un concept in senso stretto, dunque, ma un viaggio da percorrere comunque preferibilmente senza soluzione di continuità, con alcune fermate da segnare più che necessariamente sulla tabella di marcia, dall’opener “Sorrow of Sophia”, distillato aureo di struggente malinconia melodicamente declinata, all’incedere maestosamente doom di “Moon over Sabaoth”, alle spire sinuosamente sognanti di “Sleepwalkers” che celebrano il trionfo dell’incorporeità, passando per la conclusiva “Ascend into Darkness”, capolavoro di crepuscoli, riverberi space e improvvise scariche di energia, e, soprattutto, per la magnifica “The Sethian”, che, complice anche un riuscitissimo innesto melodic death si conquista la palma di brano più coraggioso del lotto.
Ennesima pozione magica distillata in un antro dove mani pentagrammaticamente divine sanno come dare un tocco di vita ad ingredienti che per quasi tutti gli allievi rimarrebbero freddo materiale inerte, plastica dimostrazione di come la qualità degli interpreti faccia ancora la differenza, per stabilire lo stato di salute e il futuro di un genere, Under a Godless Veil è un album con le stimmate dell’imperdibilità per chiunque viaggi tra le sette note alla ricerca di un possibile specchio dei tormenti ma anche degli abbandoni di un’anima nata trascendente ma prigioniera e allo stesso tempo complice di un mondo dannatamente reale. Bentornati Draconian, il gothic doom d’autore ha ancora i suoi re.
(Napalm Records, 2020)
1. Sorrow of Sophia
2. The Sacrificial Flame
3. Lustrous Heart
4. Sleepwalkers
5. Moon over Sabaoth
6. Burial Fields
7. The Sethian
8. Claw Marks on the Throne
9. Night Visitor
10. Ascend into Darkness