Il 2020 è stato un anno importantissimo per gli Ulver, rappresentando il traguardo dei 25 anni di evoluzione. Se da un lato lo stile dei Nostri ha saputo modificarsi negli anni saltando, con incredibile disinvoltura, da un genere all’altro allontanandosi completamente dal ruvido sound degli esordi, è anche innegabile che il pubblico metal sia rimasto fedelissimo alla band per tutti questi anni, seguendola in tutte le sue metamorfosi. Non è da escludere infatti che gli Ulver abbiano avvicinato molti metallari a generi lontani dai loro gusti, ma che siano riusciti, viceversa, ad avvicinare un bacino di ascoltatori molto eterogeneo al metal. A conferma del fatto che questo quarto di secolo non vuole essere un punto di arrivo per la compagine di Garm, nell’estate del 2020 il gruppo pubblica Flowers of Evil, anticipando l’uscita nei mesi precedenti con i videoclip di “Russian Doll” e “Little Boy”. In realtà questi due video sono stati sufficienti per stimolare la curiosità dei fan: nel primo troviamo una ragazza che danza sulle note della canzone in un contesto urbano, indossando una maglietta del capolavoro Bergtatt e un giubbotto di pelle arricchito da una toppa dei Coil; il secondo è sostanzialmente un fermoimmagine di un’esplosione nucleare. Non contenti, gli Ulver pubblicano un libro dal titolo eloquente, Wolves Evolve: The Ulver Story, composto da interviste, retroscena e approfondimenti sul processo creativo della band.
Questa trepidante attesa viene però colmata parzialmente. Tolto il singolo “Russian Doll” infatti, sicuramente ben riuscito e confezionato, Flowers of Evil nella sua interezza non aggiunge niente a quanto già detto con il disco precedente, se non addirittura risultando più piatto e lineare da tanti punti di vista. Le ritmiche sono sostanzialmente ripetitive per tutti i suoi 40 minuti scarsi, facendo da tappeto ad un synth pop già sentito in The Assassination of Julius Caesar. La sensazione che si ha, e che pervade tutto il disco, è che le canzoni debbano in qualche maniera esplodere o sorprendere in un preciso momento, ma questo momento non sembra arrivare mai. Le melodie sono ovviamente ben costruite e registrate, ma non ce n’è nessuna particolarmente memorabile, o che (come ci hanno abituato in passato i lupi) spiazzi completamente l’ascoltatore.
Ciò non toglie che ci siano alcuni momenti molto godibili: “Machine Guns and Peacock Feathers” per esempio, probabilmente è uno dei pezzi meglio riusciti del disco, obiettivamente arricchito da un testo pieno di riferimenti mistici (On the eve of the ninth moon/The world’s on fire/Michael and his angels/Versus the dragon) e letterari (It’s two minutes to midnight/In the garden of delight/And do androids dream/Of electric sheep?), tanto cari a Garm e soci. Infatti, se c’è una cosa che gli Ulver hanno sempre saputo fare con grande maestria, è inserire citazioni di grande livello nei loro testi e nelle loro canzoni. Ne può essere un’ulteriore prova “Hour of the Wolf”, che sebbene musicalmente non risulti particolarmente interessante, rappresenta una citazione dell’omonimo capolavoro (ahimè, non conosciutissimo) di Ingmar Bergman, in cui la notte mescola il mondo reale e il mondo immaginario del protagonista, facendolo scivolare nella follia. “Apocalypse 1993” ripercorre invece il massacro di Waco (Texas), avvenuto, come fa intuire il titolo, nei primi mesi del ‘93 dall’FBI ai danni di una setta religiosa rintanata in un ranch, in cui morirono 76 persone. Il brano rappresenta il momento più ballabile di tutto Flowers of Evil, insieme alla già citata “Little Boy”, anche se per quest’ultima il ballo è quasi apocalittico e rituale. “Nostalgia” e “A Thousand Cuts” chiudono il disco, confermando la rarefatta malinconia che gli Ulver volevano in qualche modo trasmetterci. Dalla ballata conclusiva in particolare forse ci si poteva aspettare qualcosina in più, avendo un potenziale notevole in termini di progressione elettronica. Il risultato è invece in linea con il resto dell’album: gradevole ma con un senso di incompiuto.
Con Flowers of Evil gli Ulver hanno compiuto un gesto che non era mai riuscito in 25 anni di carriera, cioè ricalcare sostanzialmente lo stile del disco precedente. Se obiettivamente questo rappresenta una notizia sensazionale, da ascoltatori non possiamo fare altro che prendere atto di un’obiettiva frenata nella loro continua evoluzione. Se infatti The Assassination of Julius Caesar ha saputo dare una ventata di freschezza e di novità alla loro proposta, Flowers of Evil lascia un po’ di amaro in bocca, nonostante sia un disco ben prodotto e, per certi versi piacevole.
Cosa si è incagliato nel motore Ulver? Difficile a dirsi: i motivi possono essere tantissimi e, di sicuro, quelli più veri non ci perverranno mai. Che l’ispirazione stia calando? Che l’allontanamento di Daniel O’ Sullivan dalla band abbia pesato nel processo creativo? Che i lupi si stiano concentrando su altro? Come detto, è difficile schiarire la verità. Quello che possiamo dire, in conclusione, è che il nuovo capitolo nella parabola ulveriana è un disco sufficiente, che purtroppo non appassiona e che speriamo sia solo di passaggio verso nuovi lidi musicali ancora inesplorati.
(House of Mythology, 2020)
1. One Last Dance
2. Russian Doll
3. Machine Guns and Peacock Feathers
4. Hour of the Wolf
5. Apocalypse 1993
6. Little Boy
7. Nostalgia
8. A Thousand Cuts