Ascesa, trionfo, declino, scomparsa, rinascita… se mai fosse possibile individuare il curriculum ideale da offrire alle divinità che governano il pianeta rock per ottenere un diritto di imperitura cittadinanza, molto probabilmente gli ipotetici, solerti funzionari preposti alle relative certificazioni consiglierebbero a band ed artisti proprio un siffatto cursus honorum, con quel mix inscindibile di polvere e altari che la Storia riserva solo ai Grandi.
Per analizzare un classico caso di scuola, riportiamo le lancette del tempo agli ultimi battiti del trascorso millennio, quando sulla scena gothic era comparsa una luminosissima supernova capace di abbattere i cliché consolidati di un genere in cui tasso di affollamento e qualità stavano intrattenendo un rapporto di preoccupante, inversa proporzionalità. Nati da un’intuizione geniale di un (all’epoca) giovanissimo Morten Veland, i Tristania si erano affermati subito per il loro approccio non convenzionale alla materia gothic, nel tentativo di arginare la dilagante deriva symphonic che aveva in parte mutato gli assi tradizionali di un genere nato su coordinate decisamente meno roboanti e magniloquenti. Vinte subito sia la sfida del debut che la prova-sophomore (Widow’s Weeds e Beyond the Veil sono album imprescindibili per qualunque bacheca affacciata sul lato oscuro e malinconico del metal), i norvegesi avevano saputo ripetersi anche dopo la dipartita di Veland, regalando scampoli di grandissima classe con l’ancor meno convenzionale World of Glass, culmine di una carriera che da quel momento purtroppo non ha più fatto segnare pari momenti di coinvolgimento già prima della grande cesura del 2007, quando i Nostri hanno definitivamente reciso il cordone ombelicale con gli esordi puntando su rese decisamente più potabili. E per molti devoti della prima ora, l’età dell’oro dei Tristania si chiude effettivamente in quel 2007, con l’abbandono di colei che per un decennio aveva infranto la banalità del canone “the beauty and the beast” impreziosendo un timbro vocale da soprano con deliziosi riflessi in chiaroscuro (qui valga come esempio per tutti la magnifica cover di “The Modern End”, bonus track nello slipcase del citato World of Glass). Da quel momento, di Vibeke Stene si erano perse musicalmente le tracce, al netto di scarne notizie che la riportavano alle prese con il suo lavoro di insegnante e qualche fugace apparizione su palchi teatralmente apparecchiati, ma il suo nome non ha mai smesso di circolare tra i fans di antica data, perennemente in attesa di una sua seconda epifania. Per smuovere le acque, serviva evidentemente un incontro ad alto valore aggiunto e l’auspicata congiunzione astrale ha preso le sembianze di Asgeir Mickelson, già protagonista alle pelli di Borknagar e Ihsahn e di una miriade di altri progetti, tra apparizioni in qualità di ospite in sala di registrazione e partecipazioni a vari tour. Ecco allora finalmente in rampa di lancio la navicella Veil of Secrets e, lo diciamo in premessa, l’orbita tracciata grazie al distacco di questo primo stadio è tutt’altro che banale, a patto di inquadrarla opportunamente sulle metal mappe ed evitando di proiettare sul risultato proprie, inveterate aspettative. E’ bene infatti chiarirlo subito, questo Dead Poetry non è un lavoro dei Tristania rimasto per qualche oscura ragione nei cassetti e finalmente riesumato per ripagare gli antichi proseliti dei quasi tre lustri di fedele attesa, bensì una pagina nuova e tutta da scrivere, in cui i frammenti del passato, che pure innegabilmente riecheggiano qua e là, non devono essere inquadrati come reliquie da venerare ma come componenti vivi di un tentativo di avventurarsi su rotte diverse. Se, dunque, il cantato di Vibeke (peraltro molto più chiaroscurale e diafano rispetto alle prove storiche) e il ruolo ben oltre la dimensione cammeo riservato ai violini (affidati alle sapienti mani di Ingvild Anette Strønen Kaare, già nella squadra Theatre of Tragedy nell’ultimo tornante della loro carriera) sono fisiologicamente ascrivibili al cielo gothic, gli assi portanti dei brani sono prevalentemente di stampo doom e melodic death, compensando opportunamente le spinte melodiche con passaggi ad alto tasso di pesantezza alternati a improvvisi strappi tellurici. Ad ancorare saldamente i brani a una base decisamente più tormentata che consolatoria o meditativa, del resto, provvede la prova di Erling Malm, ugola maschile chiamata a fare da controcanto all’universo etereo presidiato dalla Stene, alle prese con uno scream/growl che a conti fatti supera la prova, anche se l’intreccio dei due cantati non convince del tutto, quasi che mancasse una sorta di ultima mano a rifinire bilanciamenti e amalgama. Otto tracce per poco meno di cinquanta minuti complessivi, Dead Poetry sfodera una qualità media di tutto rispetto, anche se mancano forse gli episodi da standing ovation destinati all’immortalità; ci vanno indubbiamente vicino l’opener “The Last Attempt” (ottimo lo stop and go che spacca in due la trama e impeccabili le incursioni degli archi), la turbolenta “Bryd” (qui è Malm a prendersi il proscenio con uno scream spigolosissimo) e soprattutto la caleidoscopica “Meson” (classico gothic doom di scuola scandinava dove l’eco dei Tristania si arricchisce di spunti mydyingbridiani), ma ci sono allo stesso tempo momenti in cui la sensazione di un pilota automatico inserito impedisce la piena immersione in quel flusso di emozioni che è la chiave di volta per la riuscita di lavori affacciati su queste frequenze (“Sear the Fallen” e “Remorseful Heart” scontano più di tutte un discreto iato tra l’impeccabilità delle forme e la sostanza di un coinvolgimento zoppicante). Tanti pregi e qualche difetto, scegliamo la conclusiva “Entirety” per riassumere il senso dell’intero viaggio: atmosfere intriganti, linee vocali malinconicamente decadenti, impianto melodico di gran classe, ma quando gli ingredienti sembrano sul punto di combinarsi manca la scintilla per accendere davvero una miscela così accuratamente apparecchiata.
Un ritorno atteso da anni, una collaborazione tra fuoriclasse, un tentativo di ripercorrere antiche e nobili coordinate senza indulgere ad anacronistiche riproposizioni fuori tempo massimo, Dead Poetry è un album che non farà gridare al capolavoro ma che merita comunque molto più di un semplice onore delle armi per aver provato a cercare sentieri originali all’interno di antichi confini. Complessivamente già buona la prima, ma la sensazione è che i Veil of Secrets abbiano ben altre frecce da scoccare, se decideranno di dare un seguito al percorso appena iniziato.
(Crime Records, 2020)
1. The Last Attempt
2. Sear the Fallen
3. Remorseful Heart
4. The Lie of Her Prosperity
5. Fey
6. Bryd
7. Meson
8. Entirety