“Il rasoio di Occam è un principio metodologico che, tra più ipotesi per la risoluzione di un problema, indica di scegliere, a parità di risultati, quella più semplice”. Così, con una chiarezza opportunamente in linea con il contenuto del principio descritto, la più nota enciclopedia online definisce uno dei principi cardine della cultura occidentale, distillato in ambito filosofico nel XIV secolo e divenuto uno degli assi portanti della ricerca scientifica contemporanea. Lontano da alambicchi, provette, microscopi, telescopi, laboratori e osservatori, però, non sempre la scelta della semplicità come stella polare è automaticamente sinonimo di riuscita e garanzia di esiti memorabili, a maggior ragione quando il cimento riguardi anfratti del mondo delle sette note sempre più affollati e ad alto rischio di saturazione, in cui le vene apparentemente più accessibili sembrano abbondantemente esaurite dopo anni di carotaggi compulsivi.
E’ questo sicuramente il caso del death/doom a spiccate tinte melodiche, terra d’elezione di quella scuola scandinava che da anni solca le acque dove “Gloom, Beauty and Despair” si mescolano magicamente sollevando onde intrise di commozione e abbandoni (niente di meglio del titolo di una delle tracce-simbolo degli Swallow The Sun, per rendere l’idea delle vette toccate dai maestri del genere). All’interno del “movimento”, le luci della ribalta sono da sempre accese prevalentemente sulla pattuglia degli indagatori dell’abisso, peraltro con più di un giustificato motivo, visto il clamoroso percorso artistico di band come il citato combo capitanato da Juha Raivio o i danesi Saturnus o gli svedesi Draconian, mentre ci sono stati discreti problemi coi moniker che hanno scelto di avventurarsi su rotte segnate da malinconici chiaroscuri, accusati non di rado e non del tutto senza ragione di annacquare la proposta imbarcando posticci riflessi gothic a buon mercato per incrementare la potabilità a scapito della profondità. Se, dunque, da un lato, oscurità e difficoltà di fruizione sono diventati uno stigma indispensabile per spalancare le porte della memorabilità, chi ha puntato sulla semplicità e su una (relativa) immediatezza ha finito per scontare un malcelato pregiudizio. A smentire l’ineluttabilità di siffatte affermazioni, provvede da quasi tre lustri la carriera di una band che con coerenza e ostinazione ha deciso di fermarsi sull’orlo degli umani baratri senza fissarne direttamente il fondo ma piuttosto volgendo lo sguardo su ciò che precede la caduta, là, dove il buio non ha ancora cancellato e inghiottito la poesia della luce che trascolora. Partiti da sonorità oggettivamente swallowiane (una traccia come “Fall into Tehom”, che chiude l’album di esordio Inherit the Eden, riassume alla perfezione il concetto), i finlandesi Hanging Garden hanno progressivamente affinato linguaggio e strutture, raggiungendo ad ogni rilascio nuove vette di eleganza e raffinatezza senza per questo ridurre la carica del coinvolgimento emotivo e sfuggendo puntualmente alle trappole degli ammiccamenti easy listening. Chi ha avuto la fortuna di seguirli in questi anni, peraltro, sa che per un certo periodo sono sembrati i più che auspicabili eredi di un’altra formazione “eretica” nell’universo melodic doom/death come i Ghost Brigade, ma l’ingresso in line up di una vocalist dal timbro più etereo che potente non poteva che preannunciare un’ulteriore ascesa verso i piani più alti della finezza e della ricercatezza. Apparsa come ospite nella magnifica e struggente “Ennen”, traccia conclusiva di I Am Become, Riikka Hatakka è entrata in pianta stabile in formazione con il penultimo lavoro Into That Good Night, affiancando sia pur non pervasivamente il consorte Toni dietro il microfono. Oggi, a due anni di distanza da quel platter, il nuovo Skeleton Lake chiude definitivamente il cerchio consegnandoci una band a questo punto ufficialmente a due voci e ancora una volta i Nostri riescono a sfornare un lavoro di valore assoluto, intrecciando semplicità e ispirazione con una naturalezza quasi disarmante ma che, alla settima prova, va ormai considerata un patrimonio genetico consolidato. Spigoli smussati, architetture dei brani complessivamente tradizionali, impianti melodici in primo piano, dettagli curatissimi, tutto sembra deporre a favore di una possibile accusa di aver tradito gli stilemi classici del genere (se non del metal tout court, secondo uno schema che vede tra gli illustri predecessori ad esempio gli ultimi lavori di Anathema e Katatonia), ma questi cantori del crepuscolo e dell’autunno si confermano campioni assoluti quando si tratta di maneggiare sfumature e contorni per trasportare l’ascoltatore in rarefatte dimensioni parallele dove non c’è posto per banali cliché figli di un contatto superficiale col gothic. Ecco allora che i duetti vocali sono del tutto estranei all’abusato schema the beauty and the beast, esaltando piuttosto le caratteristiche dei due timbri, dallo scream sabbioso e contemporaneamente profondo di Toni (senza dimenticare il solito clean di assoluto rilievo che forse avrebbe meritato qualche solco in più) alle doti da interprete pura di Riikka. La fruibilità dell’insieme, intuibile già dalla durata complessiva del platter e delle singole tracce (trovare album di quarantasei minuti con ben nove episodi di cui solo uno superi i sette minuti è davvero quasi un unicum, a queste latitudini musicali), è il tratto distintivo di una tracklist dove non c’è che l’imbarazzo della scelta per isolare i momenti migliori, a partire dalla triade iniziale “Kuura/Faith/Nowhere Haven”, che esalta le doti narrative e contemporaneamente “paesaggistiche” di una band da sempre a suo agio quando si cimenta con atmosfere dilatate al limite dell’evanescenza ma dentro cui pulsano inquietudini e tristezze che impediscono approdi consolatori. Funziona a dovere anche la coppia successiva, tra una “Winter’s Kiss” che sfida con successo il rischio orecchiabilità e un saggio di cantautorato minimalista come “When the Music Dies”, impreziosito nel finale da un assolo di nobile ascendenza blues, ma il meglio dell’album arriva col poker di coda, aperto dal relativo sfoggio muscolare di “Tunturi” e chiuso dalle spire lente e voluttuose di una titletrack affacciata su viste space. Nel mezzo, i due vertici qualitativi del viaggio, con la poesia pura di “Road to Bones” (davvero eccellente qui l’intreccio tra la coppia di sei corde Jussi Hämäläinen/Mikko Kolari e i ricami di Nino Hynninen alle tastiere) che vince di poco la sfida con la non meno accattivante “Field of Reeds”, sintesi perfetta di come un approccio melodico alla materia sia tutt’altro che in contraddizione con gli assi portanti di un genere… se modellata dalle mani giuste, ovviamente.
Luci soffuse, colori in dissolvenza, un approccio cinematografico dietro cui si muove l’occhio di consumati registi di ombre e tramonti, Skeleton Lake è l’ennesimo gioiello di una corona che ad ogni rilascio si arricchisce di nuovi carati e incrementa il suo valore. Per tutti i viaggiatori alla ricerca di una possibile sintesi tra metal ed eleganza, anche stavolta la stazione Hanging Garden è una sosta obbligata e un approdo sicuro.
(Lifeforce Records, 2021)
1. Kuura
2. Faith
3. Nowhere Haven
4. Winter’s Kiss
5. When the Music Dies
6. Tunturi
7. Road of Bones
8. Field of Reeds
9. Skeleton Lake