Che l’underground pugliese sia tra i più floridi, se non il più florido, del Sud Italia è ormai fuor di dubbio. A rinforzare questa tendenza arriva Cargo Cult, il nuovo album dei baresi Turangalila di cui vi avevamo già parlato in sede di recensione. Abbiamo contattato la band per uno scambio di battute circa la genesi dell’album, la ricerca alla base del proprio suono così eterogeneo, nonché qualche dettaglio da nerd.
Ciao ragazzi benvenuti su Grind On The Road, il vostro nuovo album Cargo Cult è una vera bomba, davvero complimenti vivissimi per le bellissime idee che avete avuto nello scrivere questi brani. Raccontatevi un po’, chi sono i Turangalila e come vi siete formati.
Ciao ragazzi! Grazie di ospitarci ancora sulla vostra webzine per questa intervista. E’ davvero difficile esprimere quanto siamo grati per le belle parole che ci avete riservato e, in generale, per l’accoglienza positiva che il nostro disco sta ricevendo. Tuti e quattro abbiamo militato in diverse formazioni del sottobosco musicale barese prima di conoscerci e/o cominciare a suonare assieme. Antonio e Pino Di Lenne sono amici e “partner musicali” praticamente da sempre. Intorno al 2016 avviene l’incontro fra loro due e Costantino, ma solo verso la fine del 2018, dopo alcuni tentativi e formazioni, trovano la quadra con Giovanni alla batteria e cominciano a produrre insieme una sfilza di materiale inedito.
Qual è l’idea dietro Cargo Cult, qual era l’urgenza tramite la quale avete deciso di scrivere un album così al di fuori delle righe rispetto a moltissime band del panorama italiano e non?
Pensiamo che la musica sia intrisa, come tutto, nel fiume del divenire. Pertanto non avevamo intenzione di fare un gruppo “classico”, al contrario siamo stati decisi dall’inizio a voler ricercare, sperimentare, aggrapparci a qualcosa di nuovo nei suoni, nella forma. Il mondo non ha bisogno di un altro gruppo simile a quello formato il giorno prima, il mondo della musica e dell’arte in generale deve sempre andare avanti, anche a tentoni, alla ricerca della musica del domani. Il nostro approccio creativo è totalmente scevro da pre-riflessioni o meditazioni. Ognuno di noi mette a disposizione del gruppo le proprie inclinazioni, idee ed esperienze, e poi lavoriamo sulla base di quello che ci piace durante le jam. Alcuni brani hanno gestazione lunga, altri brevissima.
Questo album per certi versi assomiglia ad una sonorizzazione, possiamo intenderla in questo modo? Da dove nasce questo vostro modo di scrivere musica?
Abbiamo lavorato in passato alla sonorizzazione della pellicola Il gabinetto del dottor Caligari, portandola anche in giro dal vivo, fin quando è stato possibile, facendo da spalla anche a realtà importanti come Caterina Palazzi. Possiamo dire che il mondo cinematografico e l’immagine sono una fortissima influenza su di noi. Tuttavia questo disco non è pensato come una sonorizzazione. Si pone perfettamente nel mezzo tra l’essere un disco antologico dei nostri migliori brani prodotti nei primi due anni insieme e l’essere un concept album sul culto dei cargo.
Parliamo un po’ delle registrazioni. C’è qualcosa che in studio avete tenuto particolarmente a far emergere? Ci sono state delle peculiarità che vorreste sottolineare nel modo in cui avete registrato/prodotto i vostri brani?
Non c’è qualcosa che sia stato prioritario rispetto ad altro, abbiamo cercato semplicemente di creare un lavoro coerente. Diciamo che sono soddisfazioni quando riesci a creare qualcosa di coerente utilizzando nello stesso brano un (quasi) quartetto d’archi e un synth
modulare, oltre che a un classico gruppo rock. Fortunatamente abbiamo avuto modo di lavorare in uno studio (il Death Star Studio di Marco Fischetti) estremamente professionale e competente che ci ha permesso di far uscire il nostro suono esattamente come lo
volevamo. Abbiamo lavorato principalmente in ripresa diretta. Cercavamo di catturare l’urgenza e la ferocia dei Turangalila, aspetto che predomina nella dimensione live. Poi chiaramente sono state fatte sovraincisioni, ma anche se non si direbbe, data la stratificazione di alcune parti, Cargo Cult è stato registrato davvero velocemente.
Domanda da nerd: quali sono stati i suoni che avete ricercato maggiormente? Ci sono state strumentazioni particolari con cui avete ottenuto un suono così personale nel disco (pedali, testate, ecc…)?
Come già detto tutti i suoni hanno avuto una priorità più o meno equilibrata. Diciamo che il suono di ognuno di noi è qualcosa di molto personale che rispecchia anche la personalità di ognuno di noi. C’è da un lato la Fender Jaguar di Tino che alterna continuamente puliti estremamente dolci e vellutati e deliri distorti. I suoi suoni sono caratterizzati da armonizzatori, modulatori e delay/reverberi. Invece la chitarra di Antonio è una chitarra più acida, distorta, sghignazzante, registrata da un amp valvolare Orange e una pedaliera dominata dal fuzz. Il suono del basso ciccione e paludoso di Michele viene sempre da una testata Orange, in questo caso transistor, e una pedaliera dominata da pedali distorcenti. Ci sarebbe tanta strumentazione di cui parlare e rischieremmo di annoiare il lettore, essendo anche noi dei nerd accumulatori compulsivi.
Come ha influito il periodo pandemico durante il periodo compositivo? Immagino la voglia di suonare i brani dal vivo sia davvero enorme, speriamo che al più presto sarà possibile tornare a suonare sui palchi ad ascoltarvi.
Ha influito pesantemente, rallentando di gran lunga la produzione di brani post Cargo Cult. Fortunatamente all’inizio della pandemia in sala prove il disco era già bello che pronto da un po’; piuttosto ci ha incentivati a chiudere gli ultimi arrangiamenti e registrare, anche perché non ci andava di stare con le mani in mano mentre non potevamo suonare dal vivo. Di recente abbiamo avuto modo di tornare su un palco a Bari presso la Extreme Music Academy con i Zolfo.
I Turangalila tra dieci anni. Come vi vedete?
Giovanni, il più vecchio tra noi, sarà probabilmente morto. Dunque, speriamo di aver pubblicato più dischi possibili in questo lasso di tempo.