Può germogliare la Poesia là, dove regnano nebbia, oscurità, freddo, dolore, desolazione, sconforto e abbandono? C’è spazio per un ultimo tentativo di umana, eroica resistenza all’ineluttabilità di un destino che prevede inesorabilmente la fine dei nostri mondi, individuali e collettivi, prima di essere inghiottiti nell’abbraccio mortale di Spazio, Tempo e Nulla? In campo musicale, per una sorta di singolare contrappasso rispetto alla vulgata comune che identifica il rock e i suoi derivati come il genere per antonomasia a più alto tasso di rilascio energetico, è toccato a uno dei mille rivoli sprigionatisi dal metal big bang primigenio il compito di solcare le terre in cui l’energia alimenta gli ultimi fuochi prima di cristallizzarsi in una raggelata (e raggelante) fissità inanimata.
Figlio delle pesantezze sabbathiane, rallentate fino all’esasperazione per iniettare vapori angoscianti in atmosfere indifferentemente dense o eteree, il funeral doom si affaccia sulla scena sul finire degli anni Ottanta, ma si struttura davvero solo nel decennio successivo, quando salgono agli onori delle cronache due band finlandesi, unite dalla contemporaneità “seminale” dei rispettivi platter di esordio ma separate dalla sorte a loro riservata dopo quei rilasci. Ecco allora da un lato la cometa Thergothon, che ha illuminato a giorno il nuovo cielo con lo strepitoso Stream from the Heavens per poi eclissarsi senza più ricomparire sulla linea dell’orizzonte e dall’altro i non meno clamorosi Skepticism, che con Stormcrowfleet hanno posto il primo, solidissimo mattone di una carriera destinata ad attraversare tre decadi lasciando in ciascuna tracce a tal punto indelebili da elevarli al rango di Maestri assoluti del genere, seduti su un ipotetico trono condiviso forse con i soli Mournful Congregation, Signori delle funeral frequenze dell’emisfero australe. Sempre fedele a se stesso ma lontanissimo dal ripetere stancamente soluzioni divenute rapidamente stucchevoli cliché nelle mani di emuli incapaci di pari apertura alare, il quartetto ha progressivamente affinato forme espressive e linguaggio, al punto da rendere un marchio di fabbrica l’uso dell’organo come controcanto ai riff, potenziando così progressivamente la maestosità delle strutture senza però rinunciare del tutto a contributi melodici che, non di rado, hanno instillato riflessi quasi malinconici in impianti all’apparenza solennemente cerimoniali. Li avevamo lasciati, sei anni fa, alle prese col loro lavoro più sperimentale (quell’Ordeal registrato live che ha confermato una volta di più l’impossibilità pressoché genetica della band di far segnare passaggi a vuoto) e oggi si ripresentano col sesto capitolo di una carriera che proprio quest’anno taglia il ragguardevole e mai banale traguardo dei trent’anni. Squadra e ingredienti che vincono non si cambiano, dunque? Non del tutto, perché in questo Companion si rafforzano ulteriormente gli elementi che già nel predecessore avevano portato più di qualcuno a dubitare della collocazione dell’album in un’orbita funeral in senso stretto. Non è imborghesimento, non è tradimento dei più o meno sacri crismi di un genere che quasi per definizione non ammette troppe variazioni sul tema, ma è innegabile che il vestito attuale degli Skepticism abbia qualche taglia in più rispetto agli esordi. Mettendo preventivamente in guardia dai rischi di semplificazioni troppo spinte, possiamo riassumere il processo in atto come una sorta di mydyingbridizzazione della proposta; intendiamoci, nulla che rimandi nemmeno per via indiretta alla componente decadente/voluttuosa di casa Stainthorpe, ma è un dato di fatto che i Nostri stiano accettando ormai di cimentarsi con le suggestioni doom/death, dimostrando peraltro di sapersi destreggiare anche in questo caso con la consueta, impeccabile maestria. Non è solo l’ulteriore passo avanti nel rapporto tra le tastiere e le sei corde, al punto che ormai i passaggi narrativi eguagliano e quasi superano i momenti di cristallizzazione del ritmo, non è solo il discreto consolidamento di quell’attitudine descrittivo/paesaggistica che ha finito per modificare ad esempio la traiettoria di una band come gli Shape of Despair, ormai definitivamente avviati su rotte più atmosferico/malinconiche che dolenti, è soprattutto la rivoluzione copernicana (su queste frequenze) di un cantato che ha ormai abbandonato la modalità “macchina da inquietudine sullo sfondo” per diventare strumento da proscenio a tutti gli effetti, secondo i dettami di una scuola doom più tradizionale. La misura della mutazione si è potuta cogliere fin dall’opener “Calla”, rilasciata come succulenta anteprima dalla Svart Records e subito candidata alla palma di pezzo più dinamico mai composto in carriera dai finlandesi, complice un inatteso tiro death che ne scuote le fondamenta (qui Matti Tilaeus azzarda addirittura riflessi in clean sul canonico growl d’ordinanza), ma è bene sottolineare che non sarà questo il timbro prevalente e complessivo di un platter che già con la successiva “The Intertwined” ripristina le attese quote e dosi di pesantezza e maestosità. Per gli amanti dell’ortodossia, in verità, scocca presto anche l’ora della riscossa, incarnata dalle spire liturgicamente avvolgenti di “The March of the Four” (che si staglia monoliticamente sul resto della compagnia senza rinunciare però a ricami in punta di cesello delle sei corde che insidiano la dittatura dell’organo disteso a tappeto per larga parte della traccia) ma chi pensa che la sorte del lavoro sia quella di sprofondare verso abissi di andature pachidermiche viene immediatamente smentito dalla sorprendente “Passage”, brano appuntito e spigoloso che regala scampoli di dissonante aggressività decisamente inusuali, nel bagaglio della band. Per riportare ordine serve assolutamente, a questo punto, uno stacco significativo e il compito è svolto magnificamente dal crescendo emozionale che si scatena in “The Inevitable”, percorsa oltretutto da un delicato fremito acustico e da non meno accattivanti linee melodiche che la candidano a un ruolo di primo piano, nella scelta dei momenti più significativi dell’intero lavoro. Buona ma complessivamente lontana dalle soglie dell’eccezionalità, “The Swan and the Raven” saluta i naviganti solcando onde sorprendentemente tranquille, disegnando un tramonto appena velato da ombre che non impediscono agli ultimi raggi di sole di illuminare almeno in parte il cammino… e che colorano l’atmosfera di grigio, più che di nero.
Da un lato il richiamo della tradizione e la consapevolezza di essere i vessilliferi universalmente riconosciuti di un intero genere, dall’altro la necessità di rispondere a istanze creative in sempre più distinguibile trasformazione rispetto alle prove passate, gli Skepticism dimostrano una volta di più che è la qualità di una proposta e non la sua comoda collocazione nelle solide e rassicuranti mura di una nicchia, a fare la differenza. Per chi ama il funeral ma anche per chi lo frequenta senza devozioni preliminari intravedendone appena i confini dal cuore del regno doom, Companion è un ascolto capace di coinvolgere ed emozionare. Imperdibile.
(Svart Records, 2021)
1. Calla
2. The Intertwined
3. The March of the Four
4. Passage
5. The Inevitable
6. The Swan and the Raven